Chernobyl Diaries, la recensione

Il papà di Paranormal Activity scrive e produce un horror dalle soluzioni registiche abbastanza scontate che risulta inquietante e magnetico per la peculiare ambientazione...

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Il nome di Oren Peli si è rapidamente trasformato in un marchio di fabbrica dopo il gargantuesco successo ottenuto dal suo film d'esordio, quel Paranormal Activity capace d'incassare la bellezza di 193 milioni di dollari a fronte di una spesa iniziale di soli 15.000$. Una cifra che poi è aumentata, questo è ovvio, nel momento in cui l'horror found footage è stato portato su pellicola e pubblicizzato in tutto il pianeta, ma anche tenuto conto di ciò, si tratta di un rapporto costi/ricavi capace di far impallidire Avatar di James Cameron. La ricetta alla base dell'horror secondo Oren Peli e del suo socio in affari Jason Blum è come mantra: budget risicato, idee valide, interpreti (non sempre) azzeccati e campagne marketing mirate e generalmente efficaci.

Non è un caso che il filmmaker israeliano, dopo l'esordio registico del primo Paranormal Activity, si sia più che altro dedicato allo sviluppo di diversi progetti low budget, rimandando a data da destinarsi, si parla del 2013, la sua seconda prova in cabina di regia, il fantascientifico Area 51.

Il box-office, finora, si è dimostrato sempre favorevole alle orride magie tirate fuori dal cilindro di questo nuovo mago del cinema di paura e, nonostante degli esiti critici abbastanza altalenanti – spesso le opere prodotte dal duo non vengono mostrate alla stampa prima della loro uscita per poi venire generalmente bocciate – da parte nostra pellicole come Paranormal Activity 3 o Insidious meritano ben più di un'occhiata fugace e supponente.

In attesa di Lords of Salem, il nuovo film di Rob Zombie finanziato dalla premiata ditta di cui sopra, e appunto Area 51, a un mese di distanza dall'uscita nelle sale cinematografiche americane, la M2 Pictures porta nei nostri cinema Chernobyl Diaries, thriller horror scritto e prodotto, questa volta in solitaria, da Oren Peli e diretto dall'esordiente Brad Parker.

La premessa alla base del film è abbastanza agghiacciante, tenendo conto che trae spunto da quanto accaduto nel 1986 a Prypiat, città fantasma abbandonata all'indomani disastro nucleare della centrale Chernobyl, situata proprio a ridosso dell'impianto e nella quale lavoravano molti abitanti della stessa Prypiat.

Da ormai diversi anni, visto e considerato che con le dovute precauzioni è possibile accedere all'area - il livello delle radiazioni è decaduto rispetto agli anni ottanta – vengono organizzati veri e propri tour della località e lo spunto alla base del lungometraggio scritto da Peli è proprio questo.

Un gruppo di ragazzi, in viaggio attraverso l'Europa, decide, una volta arrivato a Kiev per fare visita al fratello di uno di loro, di effettuare un po' di turismo estremo a Prypiat accompagnati da una guida, Uri, esperta in tal genere di escursioni.

Qualcosa andrà, ovviamente, storto, trasformando l'atipica gita in un vero e proprio inferno.

Potremmo star qua delle ore a disquisire sulla liceità di trarre un film horror basato su una tragedia del genere – anche se siamo certi che molte delle polemiche sorte negli Stati Uniti e non solo siano semplicemente collegate alla natura “entertainy” del film – ma una cosa è certa: l'ambientazione della pellicola è frutto di un guizzo di genio ed è il suo asso di briscola.

I limiti di Chernobyl Diaries sono tutti lapalissiani e facilmente avvistabili all'orizzonte. La regia di Brad Parker è ordinaria, derivativa, caciarona e non fa nulla per discostarsi dai cliché più praticati da qualsiasi regista di “firm de paura” in stile Rokko Smitherson. I colpi di scena sono telefonati e gli attori chiamati a interpretare i protagonisti di questo “survival horror” cinematografico non aiutano di certo a trasmettere tensione o empatia. Eppure questo Chernobyl Diaries ha uno strano magnetismo che non nasce, appunto, dall'estro artistico del filmmaker o degli attori, quanto dall'atmosfera e dal senso di genuina inquietudine che scaturisce dall'aver piazzato questa lotta per la sopravvivenza in un contesto come quello di Prypiat e Chernobyl (ovviamente le riprese non si sono svolte nella località dell'ex Unione Sovietica proprio a causa del rischio contaminazione; la produzione ha operato in Ungheria e in Serbia sfruttando, fra le altre cose, dei tunnel nazisti della Seconda Guerra Mondiale che hanno aiutato il cast a immedesimarsi meglio nella situazione). Forse nasce a causa di quello strano rapporto voyeuristico che fa parte dell'atto stesso del guardare un film, ma se provassimo a inserire il medesimo assunto di base – gente francamente odiosa alle prese con mutanti assetati di sangue – in un altro setting geografico, un'anonima cittadina del Massachusetts per esempio, avremmo ottenuto un film meno interessante e meno spaventoso di una puntata di Futurama ambientata fra i mutanti della Old New York. Per quanto possa essere politicamente scorretto ammettere una cosa del genere, lo sfondo offerto da Chernobyl, dalla sua tragedia e da quelli che a oggi sono i suoi mille segreti, offrono un tetro, ma imprescindibile, valore aggiunto al film.

La genialità del saper confezionare un prodotto cinematografico marcatamente di genere capace di adempiere a uno scopo ben preciso, in questo caso disturbare lo spettatore, sta anche nel saper scegliere lo sfondo più indicato dover far muovere i personaggi. E inquadrato sotto quest'ottica, Chernobyl Diaries offre una gradazione d'inquietudine che lascia abbastanza spiazzati una volta usciti dalla sala. E ad aumentare il carico d'ansia ci pensa anche la partitura musicale del lungometraggio, creata dall'italianissimo Diego Stocco (eccovi la nostra intervista esclusiva). Tesa, minimale, metallica e votata alla creazione di un commento sonoro capace di trasmettere una palpabile sensazione di disagio. La pecca più grande del film è, probabilmente, proprio quella di non essere basato sulla regia found footage. Forse, uno stile del genere avrebbe giovato a una vicenda di questo tipo, consentendo al regista di elaborare soluzioni più originali e consone. E, quantomeno, quei momenti in cui la macchina da presa segue in maniera caotica e raffazzonata quello che accade sullo schermo generando un fastidioso senso di caos, sarebbero stati, almeno, giustificabili.

Detto questo, quando uscirete dal multisala dopo aver visto il post-atomico Chernobyl Diaries e vi ritroverete a respirare l'aria inquinata dalle polveri sottili della vostra città, vi sentirete ossigenati come se vi trovaste sul Passo dello Stelvio.

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