Chernobyl Diaries, la recensione
Il papà di Paranormal Activity scrive e produce un horror dalle soluzioni registiche abbastanza scontate che risulta inquietante e magnetico per la peculiare ambientazione...
Non è un caso che il filmmaker israeliano, dopo l'esordio registico del primo Paranormal Activity, si sia più che altro dedicato allo sviluppo di diversi progetti low budget, rimandando a data da destinarsi, si parla del 2013, la sua seconda prova in cabina di regia, il fantascientifico Area 51.
In attesa di Lords of Salem, il nuovo film di Rob Zombie finanziato dalla premiata ditta di cui sopra, e appunto Area 51, a un mese di distanza dall'uscita nelle sale cinematografiche americane, la M2 Pictures porta nei nostri cinema Chernobyl Diaries, thriller horror scritto e prodotto, questa volta in solitaria, da Oren Peli e diretto dall'esordiente Brad Parker.
Da ormai diversi anni, visto e considerato che con le dovute precauzioni è possibile accedere all'area - il livello delle radiazioni è decaduto rispetto agli anni ottanta – vengono organizzati veri e propri tour della località e lo spunto alla base del lungometraggio scritto da Peli è proprio questo.
Un gruppo di ragazzi, in viaggio attraverso l'Europa, decide, una volta arrivato a Kiev per fare visita al fratello di uno di loro, di effettuare un po' di turismo estremo a Prypiat accompagnati da una guida, Uri, esperta in tal genere di escursioni.
Qualcosa andrà, ovviamente, storto, trasformando l'atipica gita in un vero e proprio inferno.
Potremmo star qua delle ore a disquisire sulla liceità di trarre un film horror basato su una tragedia del genere – anche se siamo certi che molte delle polemiche sorte negli Stati Uniti e non solo siano semplicemente collegate alla natura “entertainy” del film – ma una cosa è certa: l'ambientazione della pellicola è frutto di un guizzo di genio ed è il suo asso di briscola.
I limiti di Chernobyl Diaries sono tutti lapalissiani e facilmente avvistabili all'orizzonte. La regia di Brad Parker è ordinaria, derivativa, caciarona e non fa nulla per discostarsi dai cliché più praticati da qualsiasi regista di “firm de paura” in stile Rokko Smitherson. I colpi di scena sono telefonati e gli attori chiamati a interpretare i protagonisti di questo “survival horror” cinematografico non aiutano di certo a trasmettere tensione o empatia. Eppure questo Chernobyl Diaries ha uno strano magnetismo che non nasce, appunto, dall'estro artistico del filmmaker o degli attori, quanto dall'atmosfera e dal senso di genuina inquietudine che scaturisce dall'aver piazzato questa lotta per la sopravvivenza in un contesto come quello di Prypiat e Chernobyl (ovviamente le riprese non si sono svolte nella località dell'ex Unione Sovietica proprio a causa del rischio contaminazione; la produzione ha operato in Ungheria e in Serbia sfruttando, fra le altre cose, dei tunnel nazisti della Seconda Guerra Mondiale che hanno aiutato il cast a immedesimarsi meglio nella situazione). Forse nasce a causa di quello strano rapporto voyeuristico che fa parte dell'atto stesso del guardare un film, ma se provassimo a inserire il medesimo assunto di base – gente francamente odiosa alle prese con mutanti assetati di sangue – in un altro setting geografico, un'anonima cittadina del Massachusetts per esempio, avremmo ottenuto un film meno interessante e meno spaventoso di una puntata di Futurama ambientata fra i mutanti della Old New York. Per quanto possa essere politicamente scorretto ammettere una cosa del genere, lo sfondo offerto da Chernobyl, dalla sua tragedia e da quelli che a oggi sono i suoi mille segreti, offrono un tetro, ma imprescindibile, valore aggiunto al film.
La genialità del saper confezionare un prodotto cinematografico marcatamente di genere capace di adempiere a uno scopo ben preciso, in questo caso disturbare lo spettatore, sta anche nel saper scegliere lo sfondo più indicato dover far muovere i personaggi. E inquadrato sotto quest'ottica, Chernobyl Diaries offre una gradazione d'inquietudine che lascia abbastanza spiazzati una volta usciti dalla sala. E ad aumentare il carico d'ansia ci pensa anche la partitura musicale del lungometraggio, creata dall'italianissimo Diego Stocco (eccovi la nostra intervista esclusiva). Tesa, minimale, metallica e votata alla creazione di un commento sonoro capace di trasmettere una palpabile sensazione di disagio. La pecca più grande del film è, probabilmente, proprio quella di non essere basato sulla regia found footage. Forse, uno stile del genere avrebbe giovato a una vicenda di questo tipo, consentendo al regista di elaborare soluzioni più originali e consone. E, quantomeno, quei momenti in cui la macchina da presa segue in maniera caotica e raffazzonata quello che accade sullo schermo generando un fastidioso senso di caos, sarebbero stati, almeno, giustificabili.
Detto questo, quando uscirete dal multisala dopo aver visto il post-atomico Chernobyl Diaries e vi ritroverete a respirare l'aria inquinata dalle polveri sottili della vostra città, vi sentirete ossigenati come se vi trovaste sul Passo dello Stelvio.