Venezia 70: Tracks, la recensione
Il concorso si apre con una storia vera diretta da John Curran, che vede una sorprendente Mia Wasikowska in viaggio attraverso il deserto australiano...
Se fosse vero che “la felicità è reale solo quando è condivisa”, come filosofeggiava il celebratissimo Into the Wild penniano, la viaggiatrice australiana Robyn Davidson ne avrebbe avuta ben poca, almeno a giudicare dal film presentato oggi in apertura del Concorso della 70esima edizione del Festival di Venezia. Tracks di John Curran, tratto dal romanzo autobiografico della Davidson, segue la parabola della giovane Robyn in fuga dalla civiltà (intesa non tanto come la costrizione sociale di Into The Wild, chiaro riferimento di Curran nella costruzione del proprio film, quanto comunità di esseri umani). Già dai primi fotogrammi, la ragazza viene introdotta agli occhi dello spettatore come animale antisociale e votata in toto al compimento della sua avventurosa missione: attraversare il deserto australiano fino all’Oceno Indiano, per una distanza complessiva di quasi tremila chilometri. Suoi unici compagni di viaggio: quattro cammelli e la sua cagnolina, Diggity.
Tradizionale è, a ben guardare, il termine che meglio si presta a descrivere il film di Curran, costellato di immagini paesaggistiche desolate e spettacolari e inframmezzato da flashback più scontati dell’happy end in un film della Disney. Cosa ben più grave, lo spettatore viene trascinato in una vicenda personale intensa e accattivante, senza però restarne mai realmente coinvolto a livello emotivo. In questo, l’esempio di Into The Wild viene purtroppo tradito: laddove Penn era riuscito a creare un forte legame emozionale col protagonista, basato su qualcosa che trascendeva la mera ammirazione per l’impresa del singolo uomo, Curran si adagia sulla consapevolezza di avere per le mani una grande storia vera e non si preoccupa mai seriamente di lasciare un segno.