Venezia 70: Gravity, la recensione
L'apertura del Festival non solo non delude ma sorprende anche, con uno dei migliori film della stagione, un blockbuster pieno di cinefilia, cuore e voglia di trovare l'umanità degli esseri umani...
Poche persone sanno muoversi nel mondo del blockbuster americano come Alfonso Cuaròn, autore di film personali in patria (Y tu mama tambien) e poi in America regista sia di film su commissione (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) che di opere audaci (I figli degli uomini), sempre in grado di dare agli studios quello che vogliono senza cedere un passo su quel che interessa a lui. Gravity è l'ennesimo esempio di questa dottrina e una delle punte più alte del suo cinema.
Gravity, in ultima istanza, è un film sull'istinto di sopravvivenza, un film di sensazioni che ruota intorno alla tenacia e alla voglia di vivere, fortissima, estrema come estreme sono le condizioni (la deriva eterna nello spazio è lo spauracchio, fate voi), un film che per ogni momento simbolico e rarefatto sa proporne due di tensione, che per ogni volo intellettuale ha un botto.
Come è facile intuire si tratta di un film interamente in computer grafica, in cui nulla è vero e dove la suddetta natura splendente è totalmente finta, un film in 3 dimensioni colmo di vuoto. La dimostrazione ultima (ma davvero ce n'è ancora bisogno??) che un cinema interamente digitale non ha niente da invidiare ad uno interamente reale, perchè alla fine è pur sempre luce proiettata su uno schermo.