Venezia 70: Gravity, la recensione

L'apertura del Festival non solo non delude ma sorprende anche, con uno dei migliori film della stagione, un blockbuster pieno di cinefilia, cuore e voglia di trovare l'umanità degli esseri umani...

Critico e giornalista cinematografico


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Poche persone sanno muoversi nel mondo del blockbuster americano come Alfonso Cuaròn, autore di film personali in patria (Y tu mama tambien) e poi in America regista sia di film su commissione (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) che di opere audaci (I figli degli uomini), sempre in grado di dare agli studios quello che vogliono senza cedere un passo su quel che interessa a lui. Gravity è l'ennesimo esempio di questa dottrina e una delle punte più alte del suo cinema.

Nello spazio non si sente niente, nè c'è vita. Lo ricorda il regista con un cartello prima che inizi il film che, come è facile capire dal trailer, ruota intorno a due astronauti soli, alla deriva, nello spazio, è un surviving movie, un film sull'epica individuale che, come spesso capita nei film con due soli attori, usa due personaggi per parlare della razza umana. Agli studios Cuaròn dà la più classica delle storie di riscatto interiore attraverso una peripezia esteriore (uno dei due astronauti ha nel suo passato dei traumi relativi alla morte che non riesce a superare), e per sè tiene un ritratto della specie umana impressionante, ci sono momenti in cui l'uomo è a contatto con gli elementi, il sole, la sabbia, l'acqua ma anche il vuoto che hanno dentro il miglior Malick.

Gravity, in ultima istanza, è un film sull'istinto di sopravvivenza, un film di sensazioni che ruota intorno alla tenacia e alla voglia di vivere, fortissima, estrema come estreme sono le condizioni (la deriva eterna nello spazio è lo spauracchio, fate voi), un film che per ogni momento simbolico e rarefatto sa proporne due di tensione, che per ogni volo intellettuale ha un botto.

Poteva essere un buon blockbuster invece è uno eccellente perchè Cuaròn, con i suoi lunghi piani sequenza, la sua costante profondità di campo (ci sono dei dettagli nello sfondo, come detriti che annunciano una tempesta o improvvisi raggi di sole nell'oblò che davvero fanno la differenza) e la sua determinazione, realizza un film di lacrime e sangue anche se quasi non si vedono nessuna delle due, un lavoro di carne concreta (le poche volte che Sandra Bullock si leva la tuta spaziale è ripresa con uno sguardo carnale e una tensione erotica totalmente fuori luogo eppure fortissimi), che guarda ammirato la natura, come sempre bellissima e mortale, là dove la natura è lo spazio o il pianeta Terra nel suo complesso, visto da lontano.

Come è facile intuire si tratta di un film interamente in computer grafica, in cui nulla è vero e dove la suddetta natura splendente è totalmente finta, un film in 3 dimensioni colmo di vuoto. La dimostrazione ultima (ma davvero ce n'è ancora bisogno??) che un cinema interamente digitale non ha niente da invidiare ad uno interamente reale, perchè alla fine è pur sempre luce proiettata su uno schermo.

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