This Must Be the Place - la recensione

Una banalissima commediola on the road: Sean Penn è il protagonista principe e ingombrante di una mascherata che pensa troppo agli Oscar...

Condividi

It's the same old song. Solo cantata in modo più strampalato e con una vocetta irritante.

Aforisma dedicato a Paul McCartney: “Una rockstar non dovrebbe avere figli. Magari ti esce fuori una stilista strampalata”. True Stories di David Byrne e Paris, Texas di Wim Wenders non dovrebbero avere figli: potrebbe venir fuori This Must Be the Place di Paolo Sorrentino.

Il quinto film del regista del Divo, primo in una lingua inglese che però sembra italiano tradotto, racconta il viaggio nell'eccentricità americana da parte di una rockstar miliardaria eccentrica lontana dalle scene da più di 30 anni che sembra un incrocio tra Robert Smith dei Cure e l'Ozzy Osbourne casalingo del reality The Osbournes.

Cheyenne (Sean Penn) ha una cinquantina d'anni e la risatina da castrato alla Farinelli, si mette il rossetto rosso (è in grado di zittire un gruppo di donne sul suo utilizzo, una scena che deve aver esaltato il misogino Sorrentino), ha una chioma tinta nero corvino che si soffia costantemente via dalla faccia almeno nella prima metà del film, indossa piccoli occhialetti con montatura nera da miope, vive nel suo villone dublinese con la moglie pompiere cuor contento (Frances McDormand superpositiva, anche più che in Fargo), ha un cane con sgradevole collare elisabettiano (l'attrazione di Sorrentino per il brutto), un amico ciccione broker gran seduttore (idem), una giovane amica dark depressa (Eve Hewson, la figlia di Bono degli U2) con madre pazza che aspetta il ritorno del figlio disperso Tony (nome mitologico per Sorrentino, dalla sua passione per Scarface a L'uomo in più e romanzo spin-off Hanno tutti ragione), parecchi soldi investiti nelle azioni Tesco e un principio di depressione. E' il tipico protagonista di un film di Sorrentino con l'eccezione dell'adorabile Antonio Pisapia di Andrea Renzi dell'Uomo in più: alienato, altezzoso, antipatico, aforistico. Nel senso che sentenzia catatonico su tutto e tutti con aforismi spesso di sconcertante banalità pronunciati con grande sicurezza di sé.

Sorrentino adora questi aristocratici dell'esistenza che guardano dall'alto in basso la gente comune, come il Titta di Le conseguenze dell'amore, il Geremia di L'amico di famiglia, l'Andreotti di Il divo o il letterario Tony Pagoda di Hanno tutti ragione. Il simpaticone in questione, Cheyenne, è più triste del solito nonostante (o forse per colpa) della moglie dannatamente cuor contento con cui ha ancora qualche tipo di rapporto sessuale che però sembra soddisfacente solo per lei (aridaje). C'è bisogno di una scossa che cali il personaggio nel mare dell'umanità: c'è bisogno dell'Olocausto, magari così si vince pure una statuetta gialla. E qui il film diventa Paolo Sorrentino Goes To Hollywood Looking for an Oscar.

Il papà di Cheyenne sta morendo (non lo vede da 30 anni; ci sono una sacco di cose che Cheyenne non fa più da 30 anni), arrivano a prenderlo facce familiari improbabili e via, si parte per gli Usa per cercare l'aguzzino di 95 anni che ad Auschwitz gli diede il tormento. Il mondo ebraico newyorchese schifa il look di Cheyenne, ma non vi preoccupate: va sempre tutto liscio per l'ex rockstar, mai una brutalità. Trova pure un signore che gli presta un macchinone per raggiungere il lontano Ovest. Oplà.

L'America vista da Sorrentino: una sequela di facili curiosità che colpirebbero l'attenzione di un europeo medio in gita turistica. Il pistacchio più grande del mondo, una birra gigante al bordo della strada, l'orizzonte sconfinato, il motel dimesso, la gas station abbandonata nel deserto da quadro iperrealista, le casette prefabbricate in legno. Qui il film diventa il figlio strafottente di True Stories di Byrne e Paris, Texas di Wenders, nel senso che del primo prende a inquadrare questa umanità colorata di yankee dolcemente pronti a farsi quattro chiacchiere con un forestiero e dal secondo copia i campi lunghi paesaggistici e l'incontro con personaggi che aiutano Cheyenne a rientrare in contatto con il suo passato. Ma scordatevi l'emozione, scordatevi un momento di verità nel rapporto mentale tra Cheyenne e quel padre che sembra non averlo mai amato. Scordatevi di vedere la rockstar compiere un viaggio interiore davanti ai vostri occhi. Più si avvicina al traguardo, più è uguale a prima. Continuerà a squittire i suoi scolastici aforismi davanti a tutti (“Oggi nessuno lavora. Ognuno fa qualcosa di artistico”), che siano un tatuatore che crede nella riconoscenza o un cacciatore di nazisti che lo aiuterà ad individuare il suo bersaglio (“La pedanteria è una caratteristica essenziale per catturare i criminali nazisti”).

Dai film di Byrne e Wenders arrivano poi due corpi ingombranti. Da True Stories precipita lo stesso regista David Byrne, ex leader dei Talking Heads, autore di una colonna sonora che essenzialmente si limita a rielaborare la loro hit This Must Be the Place (già usata, meglio, dall'OliverStone di Wall Street). Lo vedremo poi cantare in un piano sequenza formalmente complesso quanto profondamente inutile (come spesso capita a Sorrentino) in un suo concerto che si chiude con un confronto con Cheyenne, tutto nero, dove quest'ultimo si sfoga con il collega Byrne, tutto bianco, in un primissimo piano colmo di retorica simile a quello dell'Andreotti sputante di Il Divo. Da Paris, Texas arriva il sempre affabile Harry Dean Stanton che parlerà con Cheyenne di trolley, argomento a lui vicino visto che, come il Titta di Le conseguenze dell'amore, il nostro ha un rapporto morboso con la valigia mobile che l'accompagna ovunque.

Olocausto? Padre internato? L'inesorabile bellezza della vendetta? Ah, già. Mi ero dimenticato che il film doveva essere anche su questo. Ma come mai mi sembra di assistere solo a Cheyenne che guida contento per le sconfinate strade americane, gioca a ping pong, beve con cannuccia esaltanti contenitori di bevanda gialla, incontra una sua ex insegnante e suona la chitarra con il figlio di una vedova di guerra che pensa che This Must Be the Place sia degli Arcade Fire? Perché la caccia al nazista, il padre internato, l'Olocausto sono solo dei trucchi messi lì molto cinicamente, una messa in scena furbetta il cui messaggio finale è: “Togliti la maschera, Cheyenne! Diventa Tony!”. Ma non è una clamorosa contraddizione in termini? Non è una presa in giro di cattivo gusto dell'Academy e dello spettatore?

 
Continua a leggere su BadTaste