Il divo

Vita dell'immortale Giulio Andreotti nel periodo più difficile della sua carriera. Prima mezz'ora folgorante ed efficacissima. Poi, si gira a vuoto e si punta solo sulle facili battute...

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Recensione a cura di ColinMckenzie

TitoloIl divoRegiaPaolo SorrentinoCast

 Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Flavio Bucci, Piera Degli Esposti, Massimo Popolizio, Carlo Buccirosso

Uscita28 maggio 2008

Se i film durassero mezz'ora, Paolo Sorrentino sarebbe uno dei massimi registi mondiali. Il sospetto lo si aveva già nei suoi film precedenti, ma qui è arrivata una conferma indiscutibile. Anche chi, come me, non stravede per questo regista, deve riconoscere che la prima parte è alle soglie del capolavoro. Sorrentino trova un ritmo perfetto, in cui le battute folgoranti del Divo Giulio vengono supportate da un modo di raccontare la realtà rapido ed incisivo, fin dal bellissimo montaggio di diversi omicidi. E quando arriva la corrente andreottiana, sembra un western dei bei tempi, una metafora assolutamente azzeccata (peccato che poi i rapporti tra loro non vengano approfonditi come sarebbe stato auspicabile). Peraltro, Roma di notte è veramente affascinante, con una Via del corso bellissima (e l'idea della scritta è fantastica).  

Il problema è che Sorrentino è un 'autore', quindi si disinteressa alle trame classiche, con tensione, emozioni e suspense che vengono banditi dal suo vocabolario. Per i primi trenta minuti, la cosa funziona, perché si tratta di una sorta di spettacolo del potere decisamente graffiante. Ma pensare che si possa andare avanti così è una pia illusione (e di sicuro non è 'la volontà di Dio'). Fin dall'inizio, la pellicola ha grossi (e comprensibili) problemi a descrivere i fatti, considerando l'incredibile quantità di materiale che ci sarebbe da conoscere per avere un quadro (anche solo approssimativo) della situazione. D'altronde, come si fa a spiegare una figura complessa come quella di Mino Pecorelli, un piduista che minava gli interessi della P2 e sapeva tutto (ma proprio tutto) dei misteri d'Italia (altro che Pasolini)?
E se alcuni aspetti erano effettivamente troppo complicati, in altri casi non possono certo bastare delle scritte per dimenticare i problemi di sceneggiatura. Il paradosso è che il 5-10% del pubblico che sa di cosa si sta parlando (percentuale che scende a cifre omeopatiche all'estero) non avverte nessuna tensione di fronte a situazioni di cui conosce la risoluzione. Invece, la stragrande maggioranza degli spettatori (anche quelli italiani) si troverà di fronte ad un'enigma avvolto in un mistero e rimarrà disorientata. Basti pensare ad una serie di suicidi di industriali e politici durante Tangentopoli, che non viene assolutamente spiegata e contestualizzata, risultando impossibile da decifrare per molti.

E se l'anima del film è ovviamente Andreotti, molti problemi dipendono proprio da come è stato raffigurato questo personaggio. Il rischio 'Bagaglino' era fortissimo, ma Toni Servillo è bravo a non caderci, se non in rari momenti. Tuttavia, è proprio la costruzione voluta dal regista a non convincere, almeno da un certo punto in poi. L'impressione è che Sorrentino abbia voluto calare una maschera di mistero su Andreotti e mantenerlo assolutamente cinico e calcolatore in qualsiasi situazione, senza un minimo di evoluzione o cambiamento (requisiti pressoché indispensabili in ogni narrazione che si rispetti). Si arriva così a momenti assurdi. Anche volendo pensare che dietro ogni mistero italiano c'è la mano di Andreotti (ipotesi non certo lontana dalla realtà, ma forse eccessiva), come è possibile che rimanga così imperturbabile di fronte alla morte di Salvo Lima, un chiaro messaggio mafioso nei suoi confronti, peraltro asolutamente imprevedibile? In altri casi, la caduta di stile è evidente, come nella scena con gli elettori, decisamente rozza, o nell'evidente autocompiacimento nella sequenza in cui un giornalista (che nella realtà sarebbe Eugenio Scalfari) lo tartassa di domande infinite. Alle mancanze dello script, dovrebbero sopperire una sequela ininterrotta di aforismi e battutine di Belzebù Andreotti (glielo fa notare anche la moglie). Idea già sbagliata di base, ma che funziona malissimo considerando che il livello delle frasi scade sempre di più nel mediocre e nel prevedibile.

In tutto questo, qualche altro momento interessante c'è, come le sedute interminabili in Parlamento con i bicchierini di plastica che volano via o il fenomenale fioretto su Aldo Moro. Ma la sensazione di occasione mancata (un classico del cinema italiano contemporaneo) è innegabile. Va detto che, a differenza di Gomorra, almeno Sorrentino ha degli obiettivi più alti e per mezz'ora li raggiunge. Tuttavia, per fare una metafora comprendente due disegnatori che di politica ci hanno vissuto, Il divo parte come una vignetta dirompente di Altan e prosegue e termina come un lavoro sciatto di Forattini. Comunque, un passo avanti dopo il pessimo L'amico di famiglia. Sperando che Sorrentino non si monti la testa per le lodi sperticate ricevute. E magari dia anche un'occhiata al botteghino, che difficilmente sarà tanto benevolo...
 

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