[Bif&st] Diaz - non pulire questo sangue, la recensione [2]
In un affresco di grande potenza narrativa, Daniele Vicari ci riporta a quella notte del 21 luglio 2001 in cui tutto andò storto al G8 di Genova, con un preciso atto d'accusa...
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Dopo altri 67' minuti, alla fine del film, ci saranno 10 minuti di applausi tutti in piedi per il regista Daniele Vicari e il produttore del film Domenico Procacci. Quella cui ho assistito ieri sera è stata la prima proiezione in pubblico in Italia di Diaz – Non pulire questo sangue.
Vorrebbe sorridere ma le fa troppo male la faccia. Verrebbe da sorridere per la bravura di Vicari e Procacci ma ci fanno troppo male gli occhi.
In un affresco “breugheliano” (il film ha paradossalmente molti punti di contatto con il capolavoro di Lech Majewski I colori della passione) soavemente autonomo dalla Storia (fino alle didascalie finali che contestualizzano l'episodio raccontato nel film) perché tutto calato nel gesto, nelle parole dette in quel momento e nel dettaglio dell'azione, il bravo regista di Velocità massima e Il passato è una terra straniera ricostruisce il poco prima e il poco dopo l'assalto della polizia italiana alla scuola Diaz di Genova in occasione del famigerato G8 del 2001. Era la sera del 21 luglio. Vicari sceglie, in compagnia del direttore della fotografia naturalista Gherardo Gossi, degli obiettivi che creano una fotografia volutamente dolce e poco densa per creare delle immagini in sé non contundenti. Ci penseranno gli elementi blu (polizia) del quadro a picchiare sodo.
Diviso nettamente tra passato e presente attraverso il lancio di una bottiglia che spesso torna indietro nel tempo (l'inquadratura iniziale ricorda l'apertura di Memento di Nolan) per rappresentare la disperata, e impossibile, volontà del regista e cosceneggiatrice Laura Paolucci di fare in modo che quell'episodio possa non avvenire più, Diaz è appunto uno scorrevole, e fresco, affresco di sangue che lascia agghiacciati per via della forza del caso, l'inesorabilità del pretesto, le spietate conseguenze di una serie di accidenti marginali alla sostanza dell'essere (come direbbe Aristotele) che sostanzialmente mandano tutta la situazione centrale a pu***ne.
Se quella macchina della polizia non si fosse fermata davanti alla Diaz per cercare la provocazione, se quel ragazzo non avesse lanciato la bottiglia che la polizia registra come provocazione permettendo a quei geniacci dei capi della Polizia e Digos di pianificare l'assalto notturno, se Carlo Giuliani non fosse stato ucciso da un carabiniere quel giorno stesso alzando la tensione degli scontri, se i poliziotti non fossero stati così irritati dai Black Bloc da diventare delle macchine pronte per la macelleria messicana (“Io i miei non li tengo più” dice il capo di un reparto di celerini ai suoi superiori non facendo breccia nelle loro orecchie), se i Black Bloc non si fossero mischiati effettivamente ai pacifici occupanti della Diaz permettendo all'ipotesi investigativa di una loro infiltrazione nella scuola di avere fondamento, se la linea più moderata del capo reparto dei celerini interpretato da Claudio Santamaria ispirato al reale Michelangelo Fournier (è pronto a portare la sua donna a un concerto di Ricky Martin solo se lei dopo andrà con lui a uno dei Black Crows) fosse passata come la linea da seguire, se, se, se, se...
Se tutte queste cose non fossero, o fossero, avvenute, non ci sarebbe stata quell'orribile mattanza di pacifici iscritti Cgil (Renato Scarpa), giornalisti di piccoli quotidiani pergiunta conservatori ispirati al reale Il Resto del Carlino (il reporter Elio Germano), addetti alla logistica del Social Forum come Alma Koch (Jennifer Ulrich, già apprezzata molto ne L'onda), uomini di affari capitati a dormire alla Diaz perché gli alberghi in città erano tutti pieni (Fabrizio Rongione).
Accidentalismo. Eppure Vicari, che sposa con sguardo complesso le conseguenze dell'accidentalismo, non rimane inerme di fronte ad esso. Nella seconda parte del film, quella in cui emerge nettamente la sua parte più indignata, la tesi è: ok l'accidentalismo, c'erano brave persone, e persone non perbene, sia tra i poliziotti che tra i manifestanti, a Genova tutto poteva storto, ma lo Stato, uno Stato, non dovrebbe cercare, almeno provare, ad essere immune dall'accidentalismo? Non dovrebbe lavorare ogni giorno contro l'accidentalismo assumendosi la responsabilità delle sue conseguenze? Non dovrebbe, dopo un fattaccio, andare a metterci la faccia davanti ai suoi cittadini dicendo anche: “Scusate, abbiamo sbagliato”?
Questo punto di vista è il punto di vista finale del bellissimo Diaz di Vicari.
Quello che mi ha sinceramente colpito del film di un regista già molto complesso e affascinante, per via del suo interesse nei confronti dei rapporti di potere tra esseri umani a prescindere da divise e simboli di riferimento, è il suo sguardo complessivo sulla vicenda Diaz.
I Black Bloc esistono e non sono proprio dei simpaticoni. Sono dei bambini che giocano alla guerra metropolitana come ne I guerrieri della notte di Walter Hill (che belli quei due bastoni di ferro che si toccano all'inizio del film per simboleggiare la spensierata "gioia cameratesca" nello spaccare un bancomat). Ma anche loro, alla fine del film, possono avere una coscienza. “Stavano cercando noi” dice un Black Bloc quando entra nella palestra imbrattata di sangue della Diaz dopo che si era imboscato. E si sente male. E meno male che ti senti male ragazzo mio, aggiungiamo noi. I poliziotti esistono e non sono tutti dei maiali (il senso di colpa in tanti di loro per la Diaz e gli interrogatori seguenti nella caserma di Bolzaneto era sottotraccia in tutto A.C.A.B. di Sollima fino a un finale molto forte vicino al sacrificio espiatorio).
I responsabili della logistica del Social Forum sono indaffarati, sudati e normalissimamente divisi tra impegno lavorativo e voglia di fare l'amore.
Intorno a loro, una Genova che vive come se niente fosse proprio come i tanti protagonisti della Salita al calvario di Breugel per niente colpiti dal Cristo che si appresta a morire al centro del quadro. Le massime cariche della polizia, e del Ministero dell'Interno, sembrano invece dei totali improvvisati, persone non in grado di gestire una situazione così delicata e mai in grado, dopo, di volersi assumere un briciolo di responsabilità. Strategia della tensione? Verrebbe da dire, magari. Per quella aspettiamo il Marco Tullio Giordana del film su Piazza Fontana. Diaz di Vicari racconta una formidabile strategia della disorganizzazione in cui molte persone che devono decidere di ordine pubblico fanno le scelte sbagliate per estrema superficialità e pressappochismo.
Le immagini che non scorderò mai: i bastoni di ferro dei Black Bloc che si toccano con gioia, le macchine della polizia in composta fila indiana che attraversano una Genova ancora ignara per dirigersi alla Diaz (Vicari: tieni di più quella inquadratura aerea! E' splendida), Santamaria che ripete: “Riponete il tonfa e lasciate immediatamente l'edificio” (le parole sono caos), un poliziotto che mostra a un suo superiore un libro con strani disegni come possibile prova anarco-insurrezionalista dopo l'irruzione in Diaz (e se fosse il Mentaculus di Serious Man?), l'esibizione retorica di due bottiglie molotov trovate alla Diaz come prova del fatto che fosse un pericoloso covo di Black Bloc, i poliziotti che mettono le X sulle guancie agli arrestati portati a Bolzaneto dopo la Diaz, Germano che piange dicendo “Grazie” al Direttore del giornale che è venuto a trovarlo in ospedale (ci sono ancora Direttori così? Spero di incontrarne uno), la poliziotta con orrida maglietta di Dolce e Gabbana che rilascia la prima conferenza stampa dopo il fattaccio non rispondendo alle domande dei giornalisti stranieri.
Un film di piccoli tocchi che creano un grande significato. Bisogna essere fieri, come italiani, che dei nostri compatrioti abbiano realizzato questa opera cinematografica.