The Last of Us Parte II, una spietata lente d'ingrandimento su Seattle e sugli Stati Uniti post-apocalittici | Speciale

Lo State of Play di ieri sera ha fatto luce sull'importanza delle ambientazioni che potremo visitare in The Last of Us Parte II

Condividi

Quando mancano esattamente 22 giorni all’uscita di The Last of Us Parte II, lo State of Play di ieri sera - incentrato esclusivamente sull’opera di Naughty Dog - si è rivelato un appuntamento seguito e apprezzato, perché gli oltre venti minuti dell’evento, raccontati dalla voce di Neil Druckmann, hanno aperto la strada a una serie di riflessioni di varia natura.

Tralasciando il discorso legato alle novità di gameplay, l’elemento che più ha catturato la nostra attenzione è Seattle, metropoli dello stato di Washington, nel nord-ovest degli Stati Uniti

Può sembrare un dettaglio di poco conto, ma il passaggio dalla Boston del primo capitolo alla Seattle di The Last of Us Parte II lascia intendere la filosofia che sta alla base dell’opera di Naughty Dog. Nel primo caso, la capitale del Massachusets si limitava a essere teatro silenzioso e passivo, in cui, tra edifici distrutti in stile europeo e skyline resi malinconici dalla natura che si riappropria dei suoi spazi, si incontravano gruppi di sopravvissuti o di Clicker. Al contrario, la Seattle entro cui viene narrato il viaggio emozionale di Ellie sembra avere un ruolo più incisivo nella caratterizzazione del titolo.

Ciò è evidente nella presenza di due fazioni avversarie, il Washington Liberation Group (WLG) e i Serafiti. Il primo nacque come ribellione all’occupazione militare della città quando esplose la pandemia 25 anni fa, i secondi invece sono dediti al culto tribale. Entrambe le fazioni delineano perfettamente i sentimenti americani, esasperati in casi di apocalisse. Da una parte la ricerca della sicurezza e della superiorità sugli altri sfruttando arsenali d’armi di prim’ordine, dall’altra attraverso la religione, che comunque non rinnega la violenza, anzi.

Uno degli aspetti più impressionanti dello State of Play è il realismo prepotente attraverso cui viene espressa la volontà di sopravvivenza, non solo di Ellie, ma dello scampolo di “umanità” che occupa i territori abbandonati della metropoli. Un aspetto su cui gli sviluppatori hanno posto immediatamente l’accento, come dimostrato dal trailer pubblicato in occasione della Paris Games Week del 2017, che col senno di poi potremmo legare ai Serafiti. Coltelli, asce, arco e frecce: il loro approccio alla lotta è irruento e disturbante da vedere. Una violenza che implica la sofferenza. Non si tratta, però, di una violenza fine a se stessa, né di una spettacolarizzazione della morte, ma di un’estremizzazione verosimile di quella che potrebbe essere la nostra società nel post-apocalittico.

In particolare, il riferimento è alla società americana lontana dagli stereotipi tipici di New York, Los Angeles e della stessa Boston, dove le sue contraddizioni appaiono più forti. Una tesi rafforzata dalla scelta di ambientare The Last of Us parte II nello Stato di Washington, situato vicino a Idaho e Montana, setting prediletto di Far Cry 5 per rappresentare il fanatismo religioso americano, ma anche all’Oregon, altra ambientazione iconica di Days Gone, in cui i sopravvissuti sembrano ricordare per approccio e mentalità il WGF. In breve, sembra proprio che l’America meno nota sia il teatro perfetto – e per perfetto non intendiamo bello, ma immersivo – per mostrare i timori legati all’apocalisse, altro tema a cui gli americani sono molto legati. 

Quando parliamo di armi e religione associate agli Stati Uniti, ci viene sempre in mente il motto stampato sul dollaro “In God We Trust”, perché racchiude la percezione che l’America ha di sé, ovvero come potenza protetta da Dio, una potenza che regge gran parte della sua cultura sulle armi come legittima difesa da colui che proviene dall’esterno. Questa forma mentis è brutalmente tangibile in The Last of Us Parte II, che punta a un ambiente vivo, soggetto a regole ben precise, dove gli uomini non sembrano più semplici pedine da eliminare, ma appaiono come sopravvissuti aggrappati a una qualsiasi speranza pur di andare avanti, in cui non c’è spazio per la morale.

Per questo siamo convinti della forte valenza politica di The Last of Us Parte II, sempre ribadita da Neil Druckmann, che non riguarda esclusivamente la sessualità di Ellie, ma in generale l’umanità. E considerato il particolare momento storico che stiamo vivendo, il messaggio dell’opera di Naughty Dog potrebbe apparire ancora più potente e straziante.

Continua a leggere su BadTaste