Resident Evil 3 sacrifica tutto sull’altare del ritmo | Speciale

Il nuovo Nemesis, il level design lineare: tutto ha una spiegazione se si guarda Resident Evil 3 dalla giusta prospettiva

Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".


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Spoiler Alert
Come abbiamo già lasciato intendere nella nostra recensione, con il remake di Resident Evil 3 bisogna innanzitutto affrontare e risolvere un problema interpretativo. Mai come in questo caso, difatti, è fondamentale pesare e valutare le proprie aspettative prima di impugnare il pad, sospendendo il giudizio fintantoché nella propria mente si rincorrono i ricordi, opportunamente edulcorati dall’inevitabile effetto nostalgia.

L’errore ontologico che ha colpito molti fan e addetti ai lavori, difatti, è proprio quello di giudicare la produzione Capcom più per ciò che avrebbe dovuto essere, che per ciò che è realmente. Del resto, se persino Final Fantasy VII si è concesso il lusso di cambiare pelle, perché non avrebbe dovuto farlo un survival horror di vent’anni fa?

Il precedente che certamente ha influenzato ogni stima, ha il nome e il cognome di Resident Evil 2, remake certamente più brillante, indiscutibilmente più in sintonia con il classico a cui si rifà.

Il discriminante, in questo senso, è il genere di riferimento. Leon e Claire erano gli indiscutibili protagonisti di un survival horror in tutto e per tutto, un more of the same dell’illustre capostipite della saga, se vogliamo, da cui certamente ne ereditava non solo le meccaniche ludiche, ma anche il mood, il feeling, l’atmosfera.

Nel 1999 le cose furono ben diverse. Nel pieno rispetto del suo DNA, che come abbiamo avuto modo di raccontarvi spinge il brand a rinnovarsi continuamente, Resident Evil stava già tentando di evolversi, di appropriarsi di fattezze che avrebbe assunto compiutamente solo con il quarto capitolo ufficiale. La presenza incalzante di Nemesis, del resto, andava proprio nella direzione di traghettare il brand dal genere degli horror B-movie, a quello degli action, una trasformazione che negli stessi anni toccò, con una transizione molto più traumatica, anche a Dino Crisis.

Il remake di Resident Evil 3 va osservato da questa prospettiva, un filtro che giustifica ogni cambiamento, che rende coerente, ma non per forza meno dolorosa beninteso, ogni variazione rispetto all’originale.

La parola d’ordine degli sviluppatori in fase di progettazione, insomma, è stata una sola: ritmo.

Nella legittima ricerca di una maggior coesione ludica e coerenza narrativa, sono stati necessari alcuni sacrifici. L’odiata omissione della Torre dell’Orologio è tra questi, unitamente a tutta una serie di enigmi che potevano funzionare vent’anni fa, ma che oggi avremmo trovato alquanto bizzarri. Se (a stento) possiamo accettare che in una stazione di polizia si utilizzino chiavi dalle forme più disparate, nel bel mezzo di una rocambolesca fuga da una città in fiamme il costante backtracking sarebbe certamente risultato innaturale. Inoltre avrebbe finito per mortificare il senso d’urgenza che la trama vuole infondere nell’utente.

Ciò ha naturalmente comportato un appiattimento del level design, difetto imputato, e non a caso, anche a Resident Evil 4, ma è un ingrediente fondamentale per gestire e controllare al meglio l’alternarsi tra fasi in-game e scene d’intermezzo, cut-scene in cui l’elemento action è esacerbato da una regia digitale quanto mai tesa a sottolineare i gesti atletici dei protagonisti digitali.

Parla chiaro, in questo senso, lo stesso incipit dell’avventura. Laddove nel 1999 il Nemesis si faceva attendere sino ai pressi della stazione di polizia, nel remake è proprio lui a dare il via all’avventura, facendo irruzione nell’appartamento di Jill. Lo scarto stilistico rispetto a Resident Evil 2 è evidente, chiarificato sin dall’incipit.

Come se non bastasse, lo stesso Nemesis sottolinea il cambio di tono. All’incertezza della possibile ed eventuale apparizione dal nulla, meccanismo ludico perfetto per scatenare facili jump scare, Resident Evil 3 sceglie di dosarne le comparsate, limitandole a situazioni ben pianificate dagli stessi game designer. Alla paura casuale, insomma, si è preferita una calcolata scarica di adrenalina, in corrispondenza delle fasi di transizione che conducono Jill e Carlos all’atto successivo.

Anche le nuove trasformazioni del villain, pur mostrando il fianco ad un pur trascurabile paradosso, sono state concepite proprio nell’ottica di proporre scontri quanto mai emozionanti. Sebbene l’avvicinamento comportamentale di Nemesis ad un qualsiasi quadrupede faccia a cazzotti con la sua origine biologica, un umano a cui sono stati impiantati parassiti, grazie a questa nuova forma ci si ritrova protagonisti ed insieme vittime di scontri dai ritmi forsennati, incalzati da un nemico che anche in altri contesti e situazioni non ha lesinato su scatti rapidissimi, balzi sovrumani e pugni di una forza inconcepibile.

Pur disattendendo le aspettative di tanti fan, il remake di Resident Evil 3 è tremendamente in linea con il concept che animava l’originale. Votato all’azione e narrativamente più coerente, al prezzo di un level design certamente troppo lineare e di una longevità non particolarmente sviluppata, Capcom ci ha regalato un godibilissimo action dalle tinte horror.

Perché si tratterà anche di un remake con qualche problematica di troppo, ma di certo non è un’esperienza che vi concede un attimo di tregua o di noia.

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