Ghost Recon Breakpoint, Jon Bernthal è il cattivo perfetto di una trama convincente solo a metà
La fisicità che restituisce il suo personaggio, la faccia da inguaribile mascalzone, la voce roca al punto giusto, compongono la sagoma di un villain sfaccettato, carismatico, mosso da motivazioni persino condivisibili
Lorenzo Kobe Fazio gioca dai tempi del Master System. Scrive per importanti testate del settore da oltre una decina d'anni ed è co-autore del saggio "Teatro e Videogiochi. Dall'avatara agli avatar".
L’intento, tutt’altro che celato, è naturalmente duplice: sfruttare il beniamino di turno a fini di puro marketing, così da attirare anche un pubblico diverso dal solito; dare spessore al comparto narrativo, aspetto che spesso e volentieri fatica a essere convincente e coinvolgente come ci si aspetterebbe.
[caption id="attachment_201679" align="aligncenter" width="1024"] Per aspetto e fisicità, il casting di Jon Bernthal per la parte del cattivo è semplicemente perfetto[/caption]
Eppure, se già da molto tempo alcune star di Hollywood sono coinvolte nel doppiaggio di carismatiche controparti digitali (c’è sempre Mark Hamill dietro la risata raccapricciante del Joker dei Batman Arkham di Rocksteady) grazie ai progressi compiuti in materia di motion capture, soprattutto nell’ultima generazione di console, anche i volti, i visi, le movenze di attori più o meno acclamati stanno invadendo i mondi virtuali dei nostri videogiochi preferiti.
Noto ai più per aver vestito gli antipatici panni di Shane Walsh in The Walking Dead, piuttosto che quelli di Frank Castle nelle serie tv Daredevil e The Punisher, entrambe prodotte da Netflix, anni addietro diede il suo contributo nella creazione dei modelli poligonali di Manhunt, prima di esordire come attore digitale in Call of Duty: Advanced Warfare, lo stesso in cui figurava, tra l’altro, il talentuosissimo Kevin Spacey.
Con la saga di Ghost Recon, a ben vedere, Jon è alla seconda apparizione, dopo essere già stato il Maggior Cole D. Walker in Wildlands. Se allora era poco più che una comparsa, tuttavia, in Breakpoint gli è toccata la parte del cattivone di turno, un disertore dell’esercito che preferisce rincorrere un’utopia tirannica piuttosto che svolgere la sua missione da buon soldato.
Purtroppo, è proprio il caso di dirlo, il suo spessore non basta a salvare uno degli aspetti più controversi della già problematica produzione Ubisoft. Come abbiamo anticipato nella nostra recensione, gli aspetti ludici, soffocano una narrazione solo potenzialmente intrigante, ben introdotta e supportata da tematiche quanto mai attuali.
Jon ci mette del suo, fortunatamente, innalzando il livello mediamente basso degli altri attori coinvolti, soprattutto per quanto riguarda il doppiaggio e l’espressività del modello poligonale frutto del lavoro di motion capture svolto durante la creazione del gioco. Le sue spesso rocambolesche apparizioni coincidono con i picchi di una campagna altrimenti monocorde, ancorata ai soliti cliché del genere.
[caption id="attachment_201680" align="aligncenter" width="1024"] A capo dei ghost traditori, Cole D. Walker è a tutti gli effetti il braccio armato della Skell, corporation che opera in molteplici campi, tra cui quello militare ovviamente, che ha scelto l’isola di Auroa come base operativa nonché focolare della sua rivoluzione mondiale[/caption]
La fisicità che restituisce il suo personaggio, la faccia da inguaribile mascalzone, la voce roca al punto giusto, compongono la sagoma di un villain sfaccettato, carismatico, mosso da motivazioni persino condivisibili.
La mezz’ora scarsa in cui calca il palcoscenico, disciolte nelle oltre venti ore richieste per completare tutte le missioni principali, non rende giustizia alle sue indiscutibili doti, né bastano alla trama per decollare realmente, soffocata soprattutto da un protagonista suo malgrado costretto a fungere da poco più che mero avatar nelle mani del videogiocatore.
Come detto in apertura, del resto, non sempre le necessità ludiche, favoriscono lo sviluppo di una trama coerente e coinvolgente come ci si aspetterebbe.
La performance di Jon Bernthal, insomma, ci insegna che la pratica di prendere in prestito attori di Hollywood è una pratica da cavalcare con sempre più frequenza, ma che, da sola, non è forzatamente sinonimo di qualità.