Wild Wild Country, la recensione di tutti gli episodi

La nostra recensione di Wild Wild Country, documentario in sei episodi firmato Netflix dedicato all'incredibile storia di Osho

Critico e giornalista cinematografico


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L’impressione, vedendo Wild Wild Country, è che gli eventi raccontati, cioè la realtà dei fatti, si sia svolta come un film. Nulla di più lontano dal vero.

Senza mentire mai ma proponendo nella maniera più oggettiva e imparziale possibile tutti i fatti che hanno coinvolto la grande comunità seguace di colui che è stato poi chiamato Osho, ma all’epoca era noto come Bhagwan Shree Rajneesh, nel momento in cui ha deciso di sbarcare in America comprando un ranch immenso nell’Oregon e guadagnando sempre più potere quando le migliaia di seguaci l’hanno popolato creando una città da zero (e poi conquistandone un’altra), Wild Wild Country usa tutte le tecniche del cinema per raccontare una storia vera come un film.

Con una sottigliezza invisibile questo documentario in 6 parti composto da una quantità micidiale di immagini di repertorio (la maniera in cui i fatti furono coperti dai notiziari locali ha dell’impressionante) e un buon numero di interviste fatte oggi ai personaggi chiave ancora in vita, ognuno in grado di rievocare la sua versione della storia con alcuni dietro le quinte pazzeschi, riesce a fare leva sui meccanismi, sulle strategie e sulla retorica del cinema. Usa il cliffhanger alla fine di ogni puntata, trattiene alcune informazioni fino al momento migliore per usarle, fa delle persone dei personaggi, li illumina e soprattutto monta le scene con alcune idee e associazioni che creano un senso nuovo e “aumentano” la realtà avvicinandola, per l’appunto, al cinema di finzione.

Ovviamente la storia in sé ha delle obiettive caratteristiche di eccezionalità ma l’arte del racconto padroneggiata da Maclain Way e Chapman Way è tale da creare un ritmo e un incalzare di situazioni degne di un grandissimo spettacolo. Uno in cui ad essere in gioco sono le domande fondamentali che l’uomo si pone sia sulla convivenza civile, che sui culti, sulla religione, la fiducia in un leader e poi sulla tolleranza. La storia di cosa accadde alla comunità di Osho nell’Oregon è un trionfo di contraddizioni e situazioni di complicata valutazione, lontane dalla nostra attualità ma in un certo senso universali (e paradossalmente vicine a Far Cry 5).

Soprattutto però questa storia pare l’ultimo atto del grande spiritualismo orientale esportato in occidente, animato da alcuni protagonisti unici. Ancora più dell’altro grande documentario seriale degli ultimi anni (O.J. Made in America), Wild Wild Country riesce a trasformare con efficacia le persone in personaggi, riesce a vedere negli intervistati, in chi cioè racconta la propria storia nella comunità e spiega il proprio ruolo, delle figure archetipiche, alcune dotate di contrasti che starebbero bene in un thriller. Ci sono amabili signore dai capelli argento e l’atteggiamento elegante che raccontano di come tentarono di uccidere qualcuno con un candore unico, ci sono abili avvocati e affascinanti teorici che tradiscono una fiducia cieca verso il proprio guru e ancora una mente a tratti geniale e ad altri diabolici.

Nessuno avrà veramente una spiegazione chiara al 100% di cosa sia successo e ognuno alla fine potrà farsi la propria idea sull’onestà, la vera fede o invece la malafede dei coinvolti. Di certo quello di Osho rimane un retaggio unico per come ha coniugato spiritualismo (anche i suoi più avversi nemici, all’interno della comunità continuano a descriverlo come un illuminato, la mente migliore del nostro secolo) e commercio, per come ha dichiaratamente voluto spingere nel mondo del denaro qualcosa che in occidente è da sempre legato solo al pauperismo e all’umiltà. Aveva 19 Rolls Royce, era pieno di gioielli e non ne faceva mistero, i suoi seguaci sapevano di donare dei soldi che finivano in quello e ne erano lieti.

Ovviamente intorno a tutto ciò si muove il sesso libero, il bigottismo e la paura di qualcosa di diverso, il timore di un’invasione, l’arroganza locale, la xenofobia dell’america centrale e ad un certo punto, quasi tirato fuori da un cappello con un colpo da teatro impensabile: la Nike! Tutto condito da una protagonista formidabile Sheela, a tratti eroe dell’indipendenza e della lotta al potere e ad altri un villain dalla furia terribile. Di certo è evidente che la maniera in cui all’epoca il mondo (ma più che altro l’America) ha vissuto e letto gli eventi, non aveva molta aderenza alla realtà, era più una versione distorta dai media e dalla paura sociale. Qualcosa che risuona molto nelle nostre vite attuali.

Eppure ciò che impressiona di più, alla fine dell’ultima puntata, è il fatto che anche il più scettico e materialista degli animi, anche il più cinico e malizioso degli spettatori in questa storia di inganni, sotterfugi e fede non può fare a meno di notare l’incredibile spirito e l’impressionante sincerità degli adepti che pur nei momenti peggiori, anche quando tutto degenera non possono non ricordare con gli occhi lucidi il momento migliore della loro vita, quello in cui (siano degli illusi, siano dei folli o dei plagiati) hanno vissuto in piena armonia con il loro prossimo. Quel che oggi ci appare come un progetto folle e finito nella follia, per loro che lo vivevano da dentro è stato un vero modello di utopia. Sia quando tutto sembrava ideale che quando tutto è crollato, per chi viveva nella comunità del Rajneeshpuram, nell’Oregon, la vita era per la prima volta valevole di essere vissuta.

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