The End of the F***ing World (prima stagione): la recensione
The End of the F***ing World, trasmessa da Netflix, racconta in modo atipico le inquietudini adolescenziali
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C'è una frattura insanabile e rabbiosa alla base di The End of the F***ing World, che separa nettamente l'ambiente dei minori da quello degli adulti. Ciò diventa simbolicamente più evidente all'avvicinarsi al finale della stagione, quando un momento cardine è rappresentato dal passaggio alla maggiore età per uno dei protagonisti. Forse è proprio questa la fine del mondo idealizzata nel titolo, quell'argine lungo il quale si scontra l'impetuosa “rabbia giovane” che traspare dai gesti dei due giovani che seguiremo nel corso delle otto puntate. La serie inglese, diffusa a livello internazionale da Netflix, poggia con forza su questo ideale, accumulando tensioni da generi e fascinazioni diverse e costruendo un prodotto con una propria identità.
Il riferimento al primo lungometraggio di Terrence Malick fatto sopra rimane, ma in generale The End of the F***ing World lavora sulla scia di tutte le coppie criminali formate da un uomo e una donna. Se non altro nel modo in cui la tensione sessuale e la visione deviata della costruzione di un rapporto di coppia si accompagnano alle dinamiche da crime-story. Quindi echi inevitabili da Bonnie e Clyde e da Assassini Nati. Da quest'ultimo in particolare la serie riprende il sottotesto più critico, e il meno ispirato, che ritorna di episodio in episodio. James e Alyssa, dopo essere stati presentati come volgari, asociali, probabilmente psicopatici, risaltano in positivo anche grazie agli incontri ripetuti con personaggi molto più tremendi di loro.
E si tratta di pensieri che trasudano una forte inquietudine adolescenziale, quella di due giovani Holden senza radici e forse senza futuro. Come nel romanzo di Salinger, tutto lo spettro delle risposte negative come la rabbia o il rifiuto o l'arroganza serve a mascherare le paure del domani, tanto quella di rimanere soli quanto quella di aprirsi al prossimo e soffrire. C'è il desiderio di ostentare una maturità in verità molto temuta e non ancora raggiunta, cercando al tempo stesso un ombrello emotivo sotto il quale rifugiarsi, e che potrà essere rappresentato da un genitore quanto da un amico.
Il viaggio on the road di queste personalità atipiche, che nei loro momenti migliori sembrano uscire da un film indie (c'è anche una bella colonna sonora dichiaratamente vintage), ricade spesso in una serietà di fondo. Una normalizzazione eccessiva, testimoniata soprattutto dalla storyline delle due detective, una delle due interpretata dalla Gemma Whelan di Game of Thrones, che stona con i momenti più eccessivi della coppia di fuggitivi. Al termine delle otto puntate, che scorrono velocissime (praticamente un lungo film), rimane una storia di liberazione e rifiuto, ma soprattutto una storia d'amore atipica per quanto coerente con se stessa. Alyssa e James, quantomeno quelli che abbiamo conosciuto noi, possono esistere come personaggi risolti solo nello spazio breve di una fuga dal mondo, in una parentesi tra l'istante dell'allontanamento iniziale e un finale sospeso su uno schermo nero.