Storia della televisione: Oz
Il primo, storico drama da un'ora della HBO è una tragica opera di ambientazione carceraria: non c'è speranza a Oz
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Proprio per la sua natura collettiva, ribadita di episodio in episodio, è impossibile individuare un unico protagonista per la serie. Il pensiero corre a Tobias Beecher (Lee Tergesen), avvocato finito in carcere per aver investito una bambina da ubriaco. Di lui seguiremo il percorso umano, ma soprattutto lo scontro fortissimo con il capo degli "Ariani" Vernon Schillinger (J.K. Simmons) che proseguirà lungo tutte le stagioni con un'escalation senza limiti. Da citare anche Chris Keller (Christopher Meloni) e il suo rapporto con Beecher, ma anche i fratelli irlandesi Ryan e Cyril O'Reily (Dean Winters e Scott William Winters, realmente fratelli), il furioso Simon Adebisi (Adewale Akinnuoye-Agbaje), il musulmano e attivista Kareem Said (Eamonn Walker).
La dimensione tragica, in senso quasi deterministico, dell'opera risalta bene nei monologhi di Augustus Hill (Harold Perrineau). Lui è il cantore della storia, il carcerato sulla sedia a rotelle che interagisce con gli altri ma può anche rompere la quarta parete e rivolgersi a noi direttamente o tramite voice over. E non è un caso che l'ultimo episodio, intitolato Exeunt Omnes (formula per invitare gli attori a uscire di scena), richiama in modo esplicito la dimensione teatrale. Ed è sempre Augustus a raccontare, in modo ricorrente e atteso, i precedenti dei detenuti, compreso il numero di anni a cui sono condannati. Dato il grande senso di tragedia che permea l'opera, Oz si configura presto come un microcosmo dal quale non è possibile uscire, un inferno prima dell'inferno stesso, con Augustus a farci da guida narrandoci i peccatori dei gironi danteschi.
Oz è il primo drama da un'ora prodotto dalla HBO, un primato invidiabile, considerato il patrimonio televisivo che da esso sarebbe nato. Qui l'emittente inizia a strutturare un linguaggio televisivo più corposo e graffiante, che si pone obiettivi più alti e che chiede di più allo spettatore. Sacrifica qualcosa alla verosimiglianza delle situazioni in favore di un intreccio e di una coralità dal fascino immutato, salvo una certa flessione nelle ultime due stagioni. Il linguaggio visivo si fa più esplicito ed estremo e anche qui sfida ogni limite tramite scene di violenza, sesso e abusi di ogni genere. Forse è proprio questa, tra le tante, la grande rivoluzione di Oz: non è un documentario, non deve restituire qualcosa di realistico. Ha il grande fascino di una storia che basta a se stessa e che, grazie al suo valore intrinseco, può giustificare ogni limite oltrepassato.
Di lì a breve sarebbero arrivati I Soprano, The Wire e Six Feet Under. Il resto è storia, anzi lo è già qui.