Real Humans (Äkta människor): recensione

Il nostro parere sulla serie rivelazione svedese del 2012: lo show che esplora in modo intelligente la convinvenza tra umani e robot

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Dal nuovo continente a quello vecchio, per scoprire che, in un panorama televisivo sempre più vasto ed eterogeneo, anche il dominio americano è destinato a cedere il passo, prima ad un dialogo a due, con la vecchia Inghilterra e con i suoi piccoli, stupendi, coraggiosi progetti (Black Mirror, Utopia, Misfits), e poi ancora oltre, per strade che si sviluppano lungo sentieri apparentemente mai battuti prima. Abbiamo adorato i malinconici morti viventi del bellissimo Les Revenants, ma non ci è bastato. Iniziando a risalire verso la fredda penisola scandinava, sul nostro cammino ci siamo imbattuti nel danese Forbrydelsen (il The Killing originale), e poi ancora più su, esattamente al confine con la Svezia con Bron (il The Bridge originale). Infine abbiamo compiuto l'ultimo passo, siamo arrivati più a nord di quanto ci fossimo mai spinti prima, e abbiamo trovato, congelato in queste fredde terre per ben due anni prima che riuscissimo ad accorgerci della sua esistenza, il bellissimo Real Humans.

Due anni. Tanto è passato dalla trasmissione della prima stagione della serie, in originale Äkta människor, approdata nel frattempo su numerosi mercati stranieri con il titolo più comprensibile di Real Humans. Mentre, dallo scorso 1 dicembre, è iniziata la trasmissione in patria della seconda stagione, parliamo un po' di questo gioiello sconosciuto e sottovalutato. Real Humans, dal titolo incidentalmente simile al più modesto Almost Human, condivide in effetti con la serie ideata da J.J. Abrams l'elemento centrale: i robot. Molto brevemente e senza perdersi in nomi e sottotrame che in questa sede direbbero molto poco, Real Humans è ambientato in una Svezia (futuristica? Parallela?) nella quale si è sviluppata una tecnologia che ha consentito la creazione di macchine antropomorfe altamente evolute.

Il nodo centrale della vicenda è rappresentato da Mini/Anita (Lisette Plager), facente parte di un particolare e speciale gruppo di robot dotato di una propria "coscienza" che li erge al di sopra del loro ruolo originale. Finirà per caso nelle mani di un'ignara e normale famiglia e le sue vicende si intrecceranno con quelle di un gruppo di robot in fuga, di un movimento che difende la superiorità della razza umana contro quella di matrice artificiale, o semplicemente del normale svolgersi della vita quotidiana in un mondo sull'orlo del cambiamento. Sì perché in questo universo le macchine prendono il nome di Hubot (Human Robot) e questo accostamento, quest'antitesi, quest'ossimoro assoluto e la sua continua messa in discussione sono alla base di una costante riflessione della società su se stessa, dell'uomo su se stesso.

Un universo nel quale l'unico elemento di distinzione è rappresentato dall'esistenza dei robot, mentre il resto della vita sociale è identico è assolutamente inverosimile. Ma questo non ha alcuna importanza. Non l'aveva in quasi tutti gli episodi di Black Mirror, non l'aveva assolutamente in Misfits, nel quale la coerenza interna non ha mai contato molto, non ce l'aveva nel recente In the flesh, nel quale invece protagonisti erano gli zombie. Il contesto è importante fino ad un certo punto, la possibilità di portare avanti delle riflessioni intelligenti è molto più urgente. E Real Humans, comprendendo bene le eterne motivazioni della migliore fantascienza (vengono anche citate le famose leggi di Asimov), sfrutta un modello narrativo, verosimile o meno, per andare a toccare, con un linguaggio di volta in volta metaforico o più diretto, una serie di tematiche.

Più volte, senza interrompere la narrazione, che invece si mantiene costante e senza tempi morti per tutti i dieci episodi, ma integrandole con essa, i protagonisti danno corpo ad una serie di riflessioni di tipo morale, religioso, etico, quasi filosofico. Il primo riferimento che potrebbe venire in mente è Blade Runner, nella scena in cui la creatura si rivolge al suo creatore (un uomo che ormai è diventato un dio) chiedendole più vita. Real Humans parla di una coscienza, che è quella robotica, ma potrebbe essere anche quella umana, che cresce, che si migliora, che sempre più sente se stessa, e che a questo sentire vuole associare una giusta libertà, facendo passare in secondo piano l'esistenza o meno di un'anima: l'argomento si fa davvero troppo esteso e complesso per parlarne qui.

L'approccio è intelligente e ragionato: se pensate ad una banale contrapposizione tra umani/cattivi e robot/buoni vi sbagliate. Real Humans si accosta invece ad uno stile che potremmo definire "europeo", che si permette soluzioni sgradevoli, cattive e che non deve ricondurre per forza tutto ad una moraletta spicciola. In tutto questo la semplice storia in sé è piacevole da seguire, ben scritta (funziona la scelta di svelare un certo particolare attraverso un flashback che si fa sempre più esteso nel corso delle puntate), ben girata, ben interpretata. In una parola: recuperatela.

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