The Bridge: la recensione del pilot
Il thriller poliziesco di FX è ben confezionato ma presenta qualche stereotipo di troppo...
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Confine tra il Messico e gli States, terra di tutti e di nessuno, dove viene rinvenuto un cadavere, anzi due, squarciati esattamente sulla linea che divide i due Stati. Fin dall'inizio emerge chiaramente come la locazione non sia affatto casuale e come il contrasto tra le due realtà sia una delle componenti cardine della trama. Già in questo senso è apprezzabile fin da principio il tentativo palese di svincolarsi dalle motivazioni e dall'ambientazione originale andando a proiettare la vicenda in un contesto che, per ragioni storiche, sociali, politiche, si muove evidentemente su tutt'altri binari. Il confine tra States e Messico, tra la città di El Paso in Texas (che già ci era stata raccontata in maniera brutale in più di una puntata di Breaking Bad) e quella di Ciudad Juarez infatti rappresenta, come ci viene raccontato, la linea di demarcazione ideale che separa un luogo dove vengono uccise poche donne all'anno rispetto ad un inferno dove le vittime sono migliaia.
Il contrasto viene personificato dai due agenti incaricati e di fatto obbligati a sostenere l'indagine collaborando insieme. Viene così creata una task force formata dal detective statunitense Sonya Cross (Diane Kruger) e da quello messicano Marco Ruiz (Demian Bechir). A muoversi sullo sfondo della vicenda il tenente prossimo alla pensione Hank Wade e i due giornalisti Daniel Frye e Adriana Perez. Ai margini invece la proprietaria di un ranch di nome Charlotte Millright il cui marito viene colpito da infarto nella notte in cui viene scoperto l'omicidio. Se gli altri pezzi del mosaico in qualche modo si richiamano l'un l'altro e più o meno svelano i loro collegamenti, quest'ultima trama rimane sullo sfondo, ancora tutta da scoprire. Il pilot di The Bridge è carico ma non è strabordante e preferisce, al contrario di altri recenti come Under The Dome, lavorare sulla presentazione dello scenario piuttosto che sull'accumulazione di sottotrame da sbrogliare e segreti da svelare. Di particolare interesse il fatto che l'invogliamento a seguire la prossima puntata viene tutto giocato su una bella scena di tensione piuttosto che su un climax finale che comunque inevitabilmente è presente ma è in linea con lo svolgimento visto sino a quel momento.Ciò che invece lascia con l'amaro in bocca, ma più per la sensazione di già visto che per l'effettiva realizzazione, che anzi funziona, è la gestione, questa sì ricalcata sulla serie originale, del personaggio di Sonya Cross, affetto da sindrome di Asperger. Sorvolando sul detective donna tutta d'un pezzo (The Closer, The Killing, Top of the lake, Homeland, altra serie in cui la protagonista soffre di un disturbo) ritrovarci anche con un'altra sindrome di Asperger – o presunta tale, non essendo in genere mai apertamente confermata – in pochi anni dopo Abed di Community, Sheldon di The Big Bang Theory, il protagonista in Sherlock e alter-Astrid in Fringe inizia ad essere una combinazione fin troppo già vista.