The Zone Of Interest, la recensione

Dietro a The Zone Of Interest c'è una grande intuizione di linguaggio filmico, ma il problema è che manca poi tutto il resto del film

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di The Zone Of Interest, il film di Jonathan Glazer in concorso al Festival di Cannes

Il cinema di Olocausto è composto da segni filmici così potenti, così iconici e caricati da così tanto significato dalla storia del cinema, che anche solo accennarli è più che sufficiente, anzi può essere anche più potente che rappresentarli in pieno. Questa è la grande intuizione di linguaggio dietro a The Zone Of Interest, film che si occupa della vita della famiglia di un ufficiale nazista, un pezzo grosso di Auschwitz che vive con moglie figli e servitrici ebree in una villetta proprio accanto al campo di cui vediamo e sentiamo il poco che si scorge da quella casa.

La torretta con le guardie è nello sfondo delle finestre, la ciminiera del forno spesso attiva e fumante sta dietro ai bambini che giocano in giardino, i muri hanno il classico filo spinato, scorgiamo i tetti a spiovente dei dormitori dei prigionieri, costantemente il paesaggio sonoro è composto da un sottofondo di spari, urla, ordini gridati e rumore di fiamme che bruciano. A tratti c’è anche il fumo dei treni che entrano nel campo con nuove vittime. C’è insomma tutto il mondo di riferimenti che conosciamo dal cinema ma sempre nello sfondo di queste questioni ordinarie di una famiglia, come ad esempio il problema di gestire un matrimonio e la carriera di lui che lo porterà probabilmente lontano da lì.

È un’idea realmente eccezionale (come non se ne vedevano da Il figlio di Saul), uno spunto perfetto per un film che non inizia mai però.. Benché marginalizzati i segni filmici dell’Olocausto si impongono lo stesso con forza sul senso generale di ogni immagine. Basta pochissimo, anche solo un accenno. Ma non c’è altro, The Zone Of Interest non è centrato sugli eventi del campo, non sugli esseri umani (che non hanno un vero arco o una storia propriamente detta) e nemmeno si focalizza su alcune loro caratteristiche per mostrare qualcosa di queste persone, che hanno creato o tollerato quegli eventi. Anzi. Jonathan Glazer evita con cura di approfondire qualsiasi argomento che non sia quello filmico, cioè la forza di quei segni accennati. Il film in definitiva parla di quello, di questioni di linguaggio cinematografico.

“Questa è la vita che abbiamo sempre sognato” dirà ad un certo punto la moglie al marito gerarca, spiegandogli che lei non vuole muoversi da quella villa per seguirlo là dove una promozione potrebbe portarlo, ed è l’unico sprazzo di interesse umano o di curiosità per questi personaggi, il resto è ciò che da decenni abbiamo metabolizzato riguardo l’argomento. Da una parte la banalità del male di Hannah Arendt e dall’altra il vecchio assunto di Godard per il quale l’unica maniera di rendere l’orrore dello sterminio degli ebrei sarebbe di affrontarlo dal punto di vista delle questioni logistiche che andavano affrontate per portarlo a termine con efficienza. Una grande riunione di tutti i responsabili di tutti i campi di concentramento sarà infatti il momento migliore. Ma non basta a fare un film, è solo l’idea per un film.

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