The Zone Of Interest, la recensione
Dietro a The Zone Of Interest c'è una grande intuizione di linguaggio filmico, ma il problema è che manca poi tutto il resto del film
La recensione di The Zone Of Interest, il film di Jonathan Glazer in concorso al Festival di Cannes
La torretta con le guardie è nello sfondo delle finestre, la ciminiera del forno spesso attiva e fumante sta dietro ai bambini che giocano in giardino, i muri hanno il classico filo spinato, scorgiamo i tetti a spiovente dei dormitori dei prigionieri, costantemente il paesaggio sonoro è composto da un sottofondo di spari, urla, ordini gridati e rumore di fiamme che bruciano. A tratti c’è anche il fumo dei treni che entrano nel campo con nuove vittime. C’è insomma tutto il mondo di riferimenti che conosciamo dal cinema ma sempre nello sfondo di queste questioni ordinarie di una famiglia, come ad esempio il problema di gestire un matrimonio e la carriera di lui che lo porterà probabilmente lontano da lì.
“Questa è la vita che abbiamo sempre sognato” dirà ad un certo punto la moglie al marito gerarca, spiegandogli che lei non vuole muoversi da quella villa per seguirlo là dove una promozione potrebbe portarlo, ed è l’unico sprazzo di interesse umano o di curiosità per questi personaggi, il resto è ciò che da decenni abbiamo metabolizzato riguardo l’argomento. Da una parte la banalità del male di Hannah Arendt e dall’altra il vecchio assunto di Godard per il quale l’unica maniera di rendere l’orrore dello sterminio degli ebrei sarebbe di affrontarlo dal punto di vista delle questioni logistiche che andavano affrontate per portarlo a termine con efficienza. Una grande riunione di tutti i responsabili di tutti i campi di concentramento sarà infatti il momento migliore. Ma non basta a fare un film, è solo l’idea per un film.