Zombies 3, la recensione
Dopo aver integrato gli zombie e i lupi mannari, ora la comunità di Seabrook scopre che le proprie origini non sono poi così umane
La recensione di Zombies 3, in arrivo su Disney+ il 13 luglio
Perché la storia è quella degli zombie che vivono assieme agli umani, controllandosi con un braccialetto che gli leva la fame e la rabbia, ma che sono trattati come cittadini di seconda classe al limite dell’apartheid. Però tra uno zombie e un’umana (la cheerleader bionda che in realtà ha i capelli bianchi ma terrorizzata di non essere accettata usa una parrucca bionda). Lungo il primo film lui riuscirà ad entrare nella squadra di football e farsi accettare, cambiando la condizione degli zombie e rendendo la società più integrata. Nel secondo film entrano in gioco anche i lupi mannari, anch’essi marginalizzati, che affermano di voler riscrivere i libri di storia del liceo che frequentano perché raccontano la storia degli scontri con gli uomini in maniera faziosa e sbagliata, dipingendoli male, e fanno capire a Zed (lo zombie protagonista) che per integrarsi ha rinunciato a chi era, alla sua cultura e al suo specifico. Non lo dicono mai, ma noi capiamo che Zed è diventato bianco. Così troveranno una maniera di far convivere non solo le persone ma anche le diversità culturali, senza doversi fingere umani.
Non solo, la cosa più sorprendente è che nonostante presupposti risibili tipo “Ho sempre creduto che fare la cheerleader possa unire le persone diverse e perché no, anche i pianeti diversi!”, Zombies ribalta totalmente i ruoli convenzionali, quelli che hanno sempre identificato nelle cheerleader e nei giocatori di football le parti più integrate della società, i conformisti. Nel ruolo dei migliori (i più belli, i più popolari, i più ammirati) mette quelli che di solito sono i reietti e devono guadagnare diritti, così che questa storia di conquiste sociali sia anche una fedelissima allo spirito tradizionale americano. I diritti per tutti infatti non arrivano tramite l’azione della collettività o di un gruppo sociale ma tramite l’eccezionalità di uno o più singoli.
Forse davvero solo la Disney poteva trovare una maniera di rimodulare l’individualismo statunitense e farne un’arma di racconto della fatica infinita che costa creare una società inclusiva, in cui i diversi sono tanti e non un tipo solo, in cui non devono rinunciare a chi sono e in cui il mutamento è continuo.