Zlatan, la recensione

Quello che i film biografici dicono è che nonostante tutto i loro protagonisti sono persone felici. Zlatan dice l'esatto opposto

Critico e giornalista cinematografico


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Zlatan, la recensione

Dentro a Zlatan c’è l’ultimo film che era lecito aspettarsi di trovare: I 400 colpi di Truffaut.

Ci sarebbe da indagare come sia successo ma la storia di Ibrahimovic, raccontata incrociando tre linee temporali (da bambino, da adolescente e da adulto all’Ajax), trova nella parte da piccolo la sua impronta più forte. Così tanto è usato il film di Truffaut per fare da lente alla vita di un bambino diverso dagli altri con rapporti complicati, che c’è anche una scena presa di peso (quella in cui durante educazione fisica Antoine e René scappano dalla fila senza essere visti).

Una volta tanto un biografico non fa un lavoro compilativo, cioè non si limita a raccontare i fatti o drammatizzare alcuni eventi ma fonde la vera persona con un personaggio di finzione. È un personaggio ovviamente ispirato a Ibrahimovic, la sua situazione e le condizioni in cui è cresciuto ma a tutti gli effetti è un personaggio di finzione con tutti i pregi dei personaggi di finzione. Uno che il film può seguire e con cui dire non solo ciò che di buono e positivo si può dire sul protagonista ma anche altro.

La vita da bambino non è né fatta di privazioni né fatta di grandi domani, è di una ordinarietà che fa impressione e che viene filmata con gli stilemi del cinema d’autore. Il piccolo Zlatan ha il carattere del grande Zlatan ma per il resto non è diverso dagli altri, è sbruffone e questo non lo rende speciale, non lo rende felice, non è niente, è solo una caratteristica come un’altra che gli crea problemi. A scuola pensano che debba andare in un istituto a parte, nella squadretta di calcio in cui gioca (è bravo ma non un fenomeno) non piace a nessuno perché non passa la palla, e nonostante non venga mai detto è infelice e solo. Ha una famiglia, una sorella e un fratello piccolo. Stravede per il padre. Esce e ha degli amici ma sostanzialmente è sempre solo. Uno dei giocatori più individualisti del calcio professionistico è raccontato come un bambino che guarda altri giocare.

I film sportivi sono fondati sull’esaltazione per la conquista di una gloria sudata, sul racconto delle difficoltà che è propedeutico alla soddisfazione della vittoria. In questo film le vittorie (che pure ci sono) sono passeggere e mai esaltanti, mentre i fallimenti o anche solo le piccole frenate sono pieni di mestizia, solitudine e tristezza.

Anche quando è in campo (e le scene di calcio sono molto ben fatte) per la maggior parte del tempo siamo alle sue spalle mentre lui guarda altri giocare. Addirittura quando andrà al Malmo ci sarà la vittoria di un campionato con lui in panchina, tutti festeggiano senza coinvolgerlo. Ma questo non porterà a chissà quali prese di coscienza che poi gli spalancano le porte di un futuro radioso. Nessuno se lo fila a Zlatan e ci è chiaro che il protagonista di questa storia somiglia più ai villain dei film per bambini, quelli che sbagliano tutto e non hanno ciò che serve per farcela. È così all’inizio ed è così alla fine. In mezzo c’è una carriera che pare non partire mai, sempre bravo, sempre in club più grandi ma pronto a fallire continuamente, mai davvero campione. Ci vorrà Mino Raiola (forse l’ultimo dei personaggi che qualcuno che non è Ibrahimovic avrebbe scelto come saggio mentore!) che darà un altro giro al suo business e alla sua fiducia con un’arma importante: ancora più arroganza!

Questo è un film di gente che entra nelle stanze e insulta tutti, che tratta a pesci in faccia Moggi (pur temendolo) e che in un certo senso poi ne soffre. Per una volta una vita non è presa e fatta entrare in una struttura che la rende uguale a mille altre, ma trattata con l’originalità che ha.

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