Operazione Zero Dark Thirty, la recensione

Il primo film a "scrivere" la storia dell'uccisione dell'uomo più ricercato degli ultimi 10 anni è uno dei più importanti manifesti sulla rivoluzione dell'approccio femminile alla guerra...

Critico e giornalista cinematografico


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Come sa già chi ha visto Code Name: Geronimo, dietro al ritrovamento e all'uccisione di Bin Laden c'è una donna, un'agente della CIA che per diversi anni ha raccolto prove e indizi sul campo (e non) per ottenere sufficienti prove utili a scovare l'uomo più ricercato del mondo.

Operazione Zero Dark Thirty dimostra subito come questa storia di una donna forte, potente e determinata nel più maschile dei mondi è ciò che ha spinto Kathryn Bigelow (che vive una condizione simile nel mondo del cinema d'azione e di guerra) a girare questo film. Quasi fosse un atto di politica del cinema, Zero Dark Thirty nel raccontare la sua storia vera si batte per dimostrare che, nella realtà, una dimensione femminile nel mondo della guerra esiste e non somiglia a quella maschile. Già Homeland (con molta più finzione) cerca di battere questo percorso, dunque esso deve essere intrapreso anche al cinema.

Per raccontare il complesso intrecciarsi di situazioni, testimoni, interrogatori e difficoltà burocratiche (con il passaggio da un presidente degli Stati Uniti all'altro) Kathryn Bigelow sceglie proprio di partire e finire con Maya (Jessica Chastain), la sua protagonista. Arriva sul campo che è inesperta (e battezzata da un interrogatorio con tortura) e finirà con i massimi onori, tuttavia sarà sempre sola. Sola effettivamente (come nella scena finale, bellissima) e sola metaforicamente (quando nessuno le dà credito o ragione). La sua è un'odissea lunga in un mondo che le appartiene poco, in cui il maschilismo non è mai esposto ma è sempre evidente nelle difficoltà che si presentano, e nel quale lei si muove senza imitare gli uomini.

Se c'è qualcosa che Operazione Zero Dark Thirty afferma con forza è la possibilità di un atteggiamento "forte" e determinato da parte di una donna senza bisogno di imitare gli uomini. Ma la grandezza, umana ed etica, di questa regista sta nel dimostrarsi vicina anche al mondo maschile più autentico, come dimostrano le scene di relax dei soldati prima di partire per la missione, un momento di sincera partecipazione, in cui Maya, come sempre è in disparte.

Nella ricostruzione di Kathryn Bigelow, fedelissima alla realtà ma come inevitabilmente sono i film lontanissima da essa, Bin Laden viene trovato con un misto di tecniche di tortura e operazioni sul campo ma soprattutto sono le abilità relazionali di Maya, una testardaggine fuori dal comune e le sue caratteristiche eminentemente femminili a fare la differenza.

Molto si è parlato e molto si parlerà di come gli ameriacani abbiano voluto raccontare (e quindi tramandare, perchè la storia la fanno i vincitori) l'uccisione di Bin Laden, e molto si discuterà sull'opportunità dell'uso della tortura e sulla sua efficacia. Eppure da questo film che, anche più di The Hurt Locker, rifugge la spettacolarizzazione della guerra o la tensione del cinema per preferirgli il passo calmo del thriller politico, quello che emerge è soprattutto la disumana determinazione di una protagonista (della cui vita privata, una volta tanto, non sappiamo niente) di fronte al mondo degli uomini.

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