Zappa, la recensione
Uno dei documentari musicali meglio concepiti racconta una personalità musicale intrecciata all'etica del proprio paese
Dietro una delle discografie più dense e prolifiche del ‘900 si nasconde una persona difficilissima. Non stupisce. Ma ancora di più dietro alcuni dei testi più divertenti e spiritosi, delle canzoni più leggere e delle orchestrazioni più complesse, si nasconde un’etica del lavoro mostruosa e indipendente come la musica non conosce. Questo mette in primo piano Zappa, il documentario di Alex Winter che con molto materiale inedito di eccezionale potenza (l’archivio musicale di Zappa fa impressione ma non è da meno l’ultimo concerto a Praga), trova la maniera di raccontare non solo la vita e i fatti di Frank Zappa ma una forma di tenacia e di etica non comuni guardando con pari ammirazione e distanza. Non sarà mai un racconto che ispira questo perché contiene sa bene che tutto ha un prezzo.
Le parti più interessanti sono l’ardore politico degli ultimi anni e quella sul rapporto con le donne. Svicolando tutto quello che si può svicolare nella rappresentazione del musicista del ‘900, il ritratto che esce di Zappa è di una macchina da produzione musicale ossessionata dalla conservazione, dall’autonomia, dall’integrità e dal non compromettersi. Ossessionata ad un livello tale da trovare continuamente nuovi modi per essere indipendente e continuare a produrre a rotta di collo, come se non potesse stare dietro a quel che esce dalla testa. Per questo quando arriviamo al grande archivio siamo preparati a capirne la portata e a intuire come tutto questo sia intimamente legato allo spirito americano novecentesco. La visione di Frank Zappa che esce dal documentario è la personificazione dell’etica statunitense, quella del lavoro in proprio, dell’autonomia, la libertà e la dedizione totale come forma di affermazione personale.