Zalava, la recensione | Venezia 78
Dall'Iran arriva Zalava, vincitore della sezione Settimana della Critica alla Mostra del Cinema di Venezia, che sfrutta un'atmosfera thriller-horror per riflettere sulle dinamiche sociali
Al centro della trama c'è un intransigente militare, interpretato da Navid Purfaraj, che si ritrova alle prese con le convinzioni degli abitanti di Zalava che sostengono che per le strade ci sia un demone che tormenta il loro villaggio. A risolvere la situazione dovrebbe essere l'esorcista Amardan (Pouria Rahimi Sam), ma il sergente Massoud è sicuro sia un imbroglione e decide di arrestarlo, dando il via a una catena di eventi dalle conseguenze drammatiche.
Alla base della superstizioni ci sono le origini e le leggende legate alla popolazione dell'area, spiegate rapidamente nei primi minuti, e i protagonisti fanno i conti con qualcosa d'invisibile che mette alla prova ciò in cui credono, dando spazio allo scontro tra tradizione e modernità in modo metaforico e non esitando a mostrare come ci possano essere delle conseguenze letali nel seguire la massa senza soffermarsi sulle conseguenze delle proprie azioni.
L'elemento sovrannaturale della trama viene gestito bene sfruttando la location suggestiva che ben si presta a giochi di ombre, rumori inquietanti e misteri che potrebbero celarsi dietro l'angolo.
Amiri, per coinvolgere gli spettatori, sfrutta anche lo scontro tra scienza e superstizioni tramite la presenza di Maliheh (Hoda Zeinolabedin), una dottoressa che sta raccogliendo campioni biologici e sta studiando le condizioni fisiche degli abitanti per individuare la causa di un livello elevato di adrenalina nel sangue dei membri della comunità. Il suo approccio razionale ai problemi fisici delle persone e la sua lontananza dalle credenze di chi vive a Zalava diventano degli elementi che isolano la donna, rendendola l'outsider perfetta da usare per sfogare la propria rabbia e le proprie paure.
Il regista, pur non riuscendo a costruire la tensione necessaria a giustificare le scelte degli abitanti, riesce a rappresentare in modo accurato, e lievemente satirico, il modo in cui la violenza possa essere la conseguenza di una follia collettiva che fa perdere di vista ogni logica, arrivando persino a credere che un demone possa essere intrappolato in un barattolo di vetro e la cui presenza all'interno possa evitare che il contenitore vada in mille pezzi se gettato a terra, lasciando comunque allo spettatore il compito di decidere quale sia la verità sui misteriosi eventi.
La sceneggiatura firmata da Ida Panahandeh e Tahmineh Bahram fatica un po' nella parte centrale del racconto, che dovrebbe gettare le basi per gli elementi maggiormente sovrannaturali, tuttavia il buon lavoro compiuto dagli interpreti e dalla fotografia di Mohammad Rasouli costruiscono un'atmosfera efficace che conduce all'epilogo senza troppi passaggi a vuoto.