Zack Snyder's Justice League, la recensione

Dopo 3 anni e mezzo vediamo Justice League come doveva essere ed è l'apoteosi di chi ha sempre creduto che Zack Snyder potesse essere un grande regista

Critico e giornalista cinematografico


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Zack Snyder's Justice League, la recensione

Eccoci qua. Di nuovo.
Sono passati 3 anni e mezzo e Justice League ritorna gonfiato in una versione completa, come lo voleva Zack Snyder.

Ed è un gran momento per chi ha sempre avuto un debole per i film spesso fallati, incompleti e zoppicanti di questo regista non perfetto ma capace di fare cinema vero e non di filmare delle ottime sceneggiature. Subito si presenta con uno dei suoi grandi incipit in ralenti a fissare la statura immensa delle implicazioni di questa storia, riproponendo il finale di Batman v Superman con un'eco (letterale) dell'urlo di Clark Kent in tutto il mondo e sott'acqua.

Il momento che ha scosso il pianeta.

Questo è un uomo che in testa ha un'idea di cosa siano le storie di supereroi che non somiglia a nessun'altra.
Qui tutto ha senso e tutto funziona. Ci vogliono 4 ore ma tutto ha senso, è al posto giusto e fila. Sia logicamente (quindi la trama) sia emotivamente (i crescendo, la costruzione dei personaggi, i rapporti). Anche il buon Steppenwolf è ricontestualizzato, un povero diavolo con le sue motivazioni e le sue frustrazioni da conquistatore intergalattico con un capo arrogante che vuole tutto e subito.
Justice League di Snyder è praticamente una storia in più albi brossurati, ha esattamente quel passo e quel tipo di narrazione ampia, ariosa e molto dettagliata di un unico evento. Dura 4 ore perché come in una storia a fumetti ogni aspetto è approfondito. È diviso in capitoli (cioè gli albi) senza che siano “puntate” di una serie ma solo movimenti di una medesima storia. La trama è più o meno la stessa della versione di Whedon ma oltre ad esserci un bel po’ di parti di storia in più, l’impressione è che ogni scena fosse stata sforbiciata, levandogli parti essenziali non solo per la trama ma anche per il senso.

L’esempio che spiega meglio le differenze tra le due versioni forse è il primo che si presenta, quando Bruce Wayne incontra Aquaman e questi, alla fine dell’incontro, si allontana in mare. Nella versione di Whedon lo vediamo filare sott’acqua come un siluro, in questa Bruce si volta e quando torna a guardarlo il mare è piatto, fermo, silenzioso e lui non c’è più, è stato come assorbito mentre alcune donne intonano un coro locale. La scena non stacca, rimane lì, rimaniamo con il coro e la sua calma mistica. Si chiama “costruzione cinematografica di una mitologia”, non si fa a parole ma con momenti audiovisivi. Qui è già chiara la differenza tra la due versioni. In altri punti, come quello di poco successivo dell’attentato con bomba sventato da Wonder Woman, gli aggiustamenti sono invece piccoli e tantissimi, fornendo l’impressione che quella di Whedon fosse una bozza, un premontato, e questa la versione finale in cui tutto è come deve essere.

Ed è esattamente di mitologia che il film parla. Già gli altri film di Zack Snyder nell’universo DC avevano introdotto l’idea degli eroi come dei, qui il paragone è direttissimo. Se alla Marvel interessano le questioni degli eroi, alla DC interessa come noi li vediamo, la distanza e la statura. Gli dei dell’antica Grecia combatterono contro gli invasori e i loro 3 cubi secoli prima (la scena è la stessa ma ci sono personaggi in più abbastanza cruciali) e ora tocca a loro, paragone diretto enfatizzato da una gita di Diana al Partenone. E come gli dei dell’antica Grecia i 6 membri sono potenti e bizzosi, hanno caratteri molto marcati e personalità piene di difetti (lo scanzonato Flash, lo sbruffone Aquaman, la moderata Wonder Woman, il tormentato Cyborg…). Questo dà anche maggiore chiarezza ai grandi combattimenti, perché ognuno ha il suo posto e fa la sua parte.

justice league batman

L’unica nota che stona in questa grande storia che vale la pena definire “impeccabile” è il fatto che Wonder Woman si porti sempre appresso un filtro e una finalità didascalica ingombranti, come se ogni sua apparizione dovesse avere un doppio senso femminista e una finalità educativa per giovani ragazze. Eppure il personaggio di Diana è forse anche il più curato assieme a Bruce Wayne, l’unica che ha un abito diverso per ogni scena, sempre appropriato, anche il giubbottino per andare nella bat caverna o il trench bianco per il Partenone. Può far sorridere ma è una conseguenza del fatto che Zack Snyder (viva iddio) è un regista che pensa per immagini. Significa che se ha qualcosa da dire in linea di massima cerca di non farlo con i dialoghi ma inventa un’immagine che lo faccia capire. Che poi è la definizione di “cinema”. Lo fa con le pose degli eroi e con la scelta di far indossare il costume a Bruce Wayne tardissimo, e quando lo fa ha una statura, una presenza un senso. Umanissimo e più tenace di tutti ovviamente è a lui che vanno le simpatie di Snyder, l’uomo che sfida i limiti della carne per tenere a fatica il passo degli dei, che conosce il suo posto e lo sfida ad ogni azione.

Alla fine quel che sembra di capire è che Whedon avesse infilato nel lavoro di Snyder non tanto l’umorismo ma la gioia di essere supereroi, che è la carta principale della Marvel, l’eccitazione del potere e la coolness di essere super. Quando Aquaman sull’auto di Batman viaggia verso la grande minaccia e gli dice “Allora sei davvero pazzo” e salta con uno “Yahoo!” da cowboy appassionato e voglioso di gettarsi nell’azione. Quell’urlo qui non c’è. Nel momento più difficile del ritorno di Superman, Bruce Wayne dice ad Alfred di tirare fuori “l’artiglieria pesante”, qui non c’è quella battuta cambiando tutto il senso della scena. Non è mai bello né cool essere eroi, è una cosa terribile, letale, piena di sangue e faticosa.

Tecnicamente vengono introdotti due personaggi che non c’erano nell’altra versione (più una visione finale) che lanciano storie future. In più come noto il formato del film è cambiato in 4:3, cioè quadrato invece che rettangolare, per la proiezione nelle sale IMAX. È l’unico dettaglio che, visto in tv, appare superfluo se non per le scene nella fattoria dei Kent. È un fenomeno molto curioso. Chi è appassionato di cinema classico in quei momenti e con quel formato ritrova subito John Ford, Howard Hawks e William Wyler, quel tipo di epica classica nel rapporto geometrico tra le coltivazioni verticali e il formato non-orizzontale dell’immagine. È una questione di come sono inquadrati (con molta aria sopra la testa come si faceva una volta) che pare avere senso davvero solo lì, un legame con il mondo del cinema classico che è poi davvero il legame che Clark Kent ha con l’America di una volta, l’alieno che è diventato una persona eccezionale perché cresciuto in una fattoria americana, imbevuto di tutti i valori più tradizionali possibili. Chi l’avrebbe mai detto ma ripreso in quei posti, con quel formato, Clark Kent è davvero a casa, nel cinema che gli appartiene (archiviare alla voce: pensare per immagini).

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