Youth: Homecoming, la recensione: troppo di una cosa giusta?
La recensione di Youth: Homecoming, il documentario diretto da Wang Bing presentato a Venezia 81.
Quello che si pensa di Youth: Homecoming dipende da che valore diamo alla dimensione dell’impegno e dello sguardo sociale. Cioè da quanto questa dimensione può essere fatta equivalere a quella del valore artistico. Se la risposta è “molto” Youth non potrà che piacere: nel corso di una realizzazione lunga e difficoltosa (5 anni secondo la didascalia finale) Wang Bing ha raccolto una testimonianza preziosa della vita dei giovani e meno giovani lavoratori dell’industria tessile cinese, vittime di uno sfruttamento che garantisce manodopera a prezzo stracciato per alimentare il mercato internazionale. Se invece si pensa che il fine non giustifichi i mezzi Youth risulterà un punto interrogativo, interessante per ciò che mostra ma discutibile nel linguaggio scelto per farlo.
L’unico motivo immaginabile per una scelta così purista è quello di voler essere assolutamente informativi, raggiungendo un “grado zero” della forma che non solo non manipola la realtà, ma costringe lo (sventurato) spettatore a un’immersione totale in immagini grezze e autentiche. Ma se lo scopo è davvero informare, perché seppellire la realtà così faticosamente catturata in un non-racconto inaccessibile se non dai pochissimi estimatori di questo tipo di cinema estremo? E se viceversa c’è uno scopo artistico, (da una parte) questa ricerca formale non danneggia la missione di far emergere la verità orgogliosamente dichiarata nel finale? E (dall’altra) non è un po’ troppo semplice montare insieme sequenze praticamente non elaborate, lasciando allo spettatore il compito di decidere cosa farsene e se ne valga davvero la pena?