Youth: Homecoming, la recensione: troppo di una cosa giusta?

La recensione di Youth: Homecoming, il documentario diretto da Wang Bing presentato a Venezia 81.

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Quello che si pensa di Youth: Homecoming dipende da che valore diamo alla dimensione dell’impegno e dello sguardo sociale. Cioè da quanto questa dimensione può essere fatta equivalere a quella del valore artistico. Se la risposta è “molto” Youth non potrà che piacere: nel corso di una realizzazione lunga e difficoltosa (5 anni secondo la didascalia finale) Wang Bing ha raccolto una testimonianza preziosa della vita dei giovani e meno giovani lavoratori dell’industria tessile cinese, vittime di uno sfruttamento che garantisce manodopera a prezzo stracciato per alimentare il mercato internazionale. Se invece si pensa che il fine non giustifichi i mezzi Youth risulterà un punto interrogativo, interessante per ciò che mostra ma discutibile nel linguaggio scelto per farlo.

Questo linguaggio è quello di un cinema totalmente contemplativo. Wang segue vari gruppi di ragazzi nel percorso dalle grandi città dove lavorano (come Shanghai) ai paesini di provincia dove si trovano le loro famiglie per festeggiare insieme il Capodanno. In mezzo vediamo il lavoro alle macchine tessili, scene di cucina e di pranzi insieme, momenti sentimentali fra innamorati, giochi di carte fra amici, la lunghissima ripresa di un matrimonio e quella dei festeggiamenti per l’anno nuovo fra processioni e fuochi d’artificio. A tutto ciò (a parte l’abilità come cameraman necessaria per seguire i molti personaggi in scena) la regia non aggiunge assolutamente niente. Tutto viene riportato esattamente come accade, senza che il linguaggio cinematografico (musica, montaggio, colonna sonora, sistema delle inquadrature) interferisca mai con le riprese in continuità.

L’unico motivo immaginabile per una scelta così purista è quello di voler essere assolutamente informativi, raggiungendo un “grado zero” della forma che non solo non manipola la realtà, ma costringe lo (sventurato) spettatore a un’immersione totale in immagini grezze e autentiche. Ma se lo scopo è davvero informare, perché seppellire la realtà così faticosamente catturata in un non-racconto inaccessibile se non dai pochissimi estimatori di questo tipo di cinema estremo? E se viceversa c’è uno scopo artistico, (da una parte) questa ricerca formale non danneggia la missione di far emergere la verità orgogliosamente dichiarata nel finale? E (dall’altra) non è un po’ troppo semplice montare insieme sequenze praticamente non elaborate, lasciando allo spettatore il compito di decidere cosa farsene e se ne valga davvero la pena?

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