Yaya e Lennie - The Walking Liberty, la recensione
Tutto quel che di buono Gatta Cenerentola riusciva a fare con poco, in Yaya e Lennie - The Walking Liberty manca, e l'impressione di confusione gioca contro gli intenti del film
Quale che sia la trama, quali che siano i personaggi, quale che sia l’ambientazione i film animati di Alessandro Rak (spesso scritti, e qualche volta diretti, a più mani) parlano in realtà sempre della stessa cosa: della maniera in cui la cultura napoletana si piega, si plasma e si adatta a contenitori e forme diverse. La sua varietà degli approcci e le possibilità di ibridazione. Sempre diversa, capace di essere contaminata da tutto eppure sempre riconoscibile. Non c’è storia, genere o personaggio che nonostante parta da luoghi e riferimenti lontani poi non possa avere una sua versione napoletana senza perdere la propria anima. Al di là del concetto di glocal, sono storie e invenzioni che raccontano una capacità non comune di lavorare sugli archetipi narrativi e trasformarli.
Tuttavia mentre Gatta Cenerentola si basava su una mitologia molto chiara, The Walking Liberty invece è confusissimo, la scrittura è molto scombinata e così lo sono i personaggi. Come di consueto partono da archetipi ma non riescono ad andare poi altrove. Quello che capiamo è che c’è una fortissima idea di ribellione all’autorità, declinata in tante maniere diverse, perché Yaya e Lennie, spiriti liberi, non sono parte della banda di rivoluzionari che a loro volta non sono parte del regime a cui tutti sono insofferenti (ma che al suo interno ha anche persone per bene), ma al di là di quello non c’è niente.
Il paradosso è che si rischia quasi di finire a fare il tifo per la polizia fascista e per i loro problemi, in un film che non stabilisce mai un rapporto con lo spettatore e finisce masturbarsi da solo con la retorica antipotere, rivoluzionaria e anarchica.