Yara, la recensione
La ricostruzione degli eventi dell'omicidio di Yara Gambirasio è messa da parte a favore dei problemi strutturali rivelati dall'indagine
In teoria quella di Yara è un’operazione indispensabile e quasi doverosa, cioè la rielaborazione in forma di narrazione mainstream di fatti che hanno occupato la cronaca per anni, che hanno interessato l’opinione pubblica e il cui racconto, fino a questo momento, è stato in mano alla stampa. Il fatto che il cinema, da sempre, si appropri di queste storie per riraccontarle con più o meno inserti di finzione (a seconda dei casi) e sempre con una forma di storytelling che è tutta sua, è cruciale perché ai fatti aggiunge una lettura, come cioè questi eventi hanno inciso nel loro tempo, come sono stati vissuti dal pubblico e, nei casi migliori, come mai più di altri hanno catturato l’interesse comune in un certo momento, fino ad ambire a leggere la società attraverso quel piccolo evento privato e particolare.
Tutto questo però Yara non riesce mai a farlo e risulta più che altro una sintesi degli eventi per chi non li ha seguiti all’epoca. Certo ha una sua tesi, cioè tramite la caratterizzazione dei personaggi e la recitazione è schierato molto chiaramente (dalla parte degli atti processuali e in linea con gli esiti processuali), ma non ha intenzione di rivelare qualcosa di nuovo, non è il tipo di film di inchiesta, semmai è un film di testimonianza, in cui gli eventi sono messi in fila tramite la figura della pm Letizia Ruggeri, interpretata da Isabella Ragonese (per fortuna senza nessun intento mimetico ma con indipendenza), che ha condotto le indagini in modi poco convenzionali. Unica concessione di lettura critica è la maniera in cui gli eventi delle indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono stati un’ennesima dimostrazione della fatica delle donne ad essere considerate credibili e affidabili in professioni tradizionalmente maschili. A volerlo vedere ci sarebbe anche l’intenzione di raccontare la difficoltà a fare qualcosa di nuovo, ma è davvero un accenno troppo leggero per essere significativo.
È una questione molto di scrittura ovviamente, di una sceneggiatura in cui i dialoghi suonano continuamente come “Mi faccia capire…” o “Ma quindi se ho compreso bene intende che…” o ancora “Cosa la spinge a fare tutto questo?”, in modo da prestare il fianco a nuove spiegazioni, ma è anche una questione di regia che non riesce a dare un po’ di leggerezza a questi momenti.
L’intento è così chiaro da essere evidente e ammazzare qualsiasi forma di sospensione dell’incredulità.