Yara, la recensione

La ricostruzione degli eventi dell'omicidio di Yara Gambirasio è messa da parte a favore dei problemi strutturali rivelati dall'indagine

Critico e giornalista cinematografico


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Yara, la recensione

In teoria quella di Yara è un’operazione indispensabile e quasi doverosa, cioè la rielaborazione in forma di narrazione mainstream di fatti che hanno occupato la cronaca per anni, che hanno interessato l’opinione pubblica e il cui racconto, fino a questo momento, è stato in mano alla stampa. Il fatto che il cinema, da sempre, si appropri di queste storie per riraccontarle con più o meno inserti di finzione (a seconda dei casi) e sempre con una forma di storytelling che è tutta sua, è cruciale perché ai fatti aggiunge una lettura, come cioè questi eventi hanno inciso nel loro tempo, come sono stati vissuti dal pubblico e, nei casi migliori, come mai più di altri hanno catturato l’interesse comune in un certo momento, fino ad ambire a leggere la società attraverso quel piccolo evento privato e particolare.

È quello che ha fatto in maniera magistrale (sempre su Netflix) la serie Sanpa, raccontare qualcosa di noto e lasciato in mano alla stampa, per leggere le tendenze, le spinte e le anime che attraversavano, e in un certo senso ancora attraversano, la società italiana.

Tutto questo però Yara non riesce mai a farlo e risulta più che altro una sintesi degli eventi per chi non li ha seguiti all’epoca. Certo ha una sua tesi, cioè tramite la caratterizzazione dei personaggi e la recitazione è schierato molto chiaramente (dalla parte degli atti processuali e in linea con gli esiti processuali), ma non ha intenzione di rivelare qualcosa di nuovo, non è il tipo di film di inchiesta, semmai è un film di testimonianza, in cui gli eventi sono messi in fila tramite la figura della pm Letizia Ruggeri, interpretata da Isabella Ragonese (per fortuna senza nessun intento mimetico ma con indipendenza), che ha condotto le indagini in modi poco convenzionali. Unica concessione di lettura critica è la maniera in cui gli eventi delle indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono stati un’ennesima dimostrazione della fatica delle donne ad essere considerate credibili e affidabili in professioni tradizionalmente maschili. A volerlo vedere ci sarebbe anche l’intenzione di raccontare la difficoltà a fare qualcosa di nuovo, ma è davvero un accenno troppo leggero per essere significativo.

Marco Tullio Giordana alla regia e Graziano Diana alla sceneggiatura fanno la scelta (quasi indispensabile) di aggirare la pornografia del dolore, di marginalizzare quindi i genitori della vittima e passare con velocità sulle dinamiche della morte, per concentrarsi sulla fatica della detection, sul costo umano di un’indagine difficile. Che in sé è un’ottima idea. Tuttavia Giordana gira la sceneggiatura indugiando su tutte le parti di spiegazione, illustrazione e dettagliato resoconto sempre nelle stesse maniere con scarsissima inventiva o volontà di rendere la narrazione lieve. Yara è un film in cui tutti si chiamano a vicenda per nome e cognome quando entrano in scena per ricordare al pubblico chi interpretano. Uno in cui abbiamo l’impressione che le soluzioni di regia per raccontare gli eventi siano sempre le medesime e quindi che tutto si ripeta. Spiegoni - The Movie.

È una questione molto di scrittura ovviamente, di una sceneggiatura in cui i dialoghi suonano continuamente come “Mi faccia capire…” o “Ma quindi se ho compreso bene intende che…” o ancora “Cosa la spinge a fare tutto questo?”, in modo da prestare il fianco a nuove spiegazioni, ma è anche una questione di regia che non riesce a dare un po’ di leggerezza a questi momenti.

L’intento è così chiaro da essere evidente e ammazzare qualsiasi forma di sospensione dell’incredulità.

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