Yannick, la recensione | Locarno 76

Con Yannick vediamo un nuovo passo verso la normalizzazione delle follie (non sempre a fuoco) di Dupieux. Lo stesso umorismo ma irregimentato

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Yannick, il film di Quentin Dupieux in concorso al festival di Locarno, in uscita in sala il 18 gennaio

È in corso (molto lentamente) una sorta di normalizzazione di Quentin Dupieux. Yannick è un film che parte da una premessa sua, cioè accade qualcosa di strano: durante la rappresentazione di una commedia teatrale uno spettatore sì alza in piedi e protesta per il fatto che non fa ridere e non solleva l’animo per niente. Questo dibattito a scena aperta va avanti per un po’ fino a che le cose non degenerano e viene tirata fuori una pistola. Da lì con tutto il pubblico in ostaggio nella sala sì procederà a riscrivere tutto con ignoranza ma forse più efficacia. Yannick è quindi un film più comune del solito (già che la trama possa essere riassunto è un indizio) con un umorismo sempre molto presente che almeno inizialmente lavora tantissimo sull’imbarazzo.

Con un ottimo tirante e un continuo rimando delle vere motivazioni, con una curiosità che non si esaurisce allo spunto ma tiene sempre sulla corda, questo protagonista ignorantone e sempliciotto, che addirittura non sa nulla di come si usa un computer, è fuori da qualsiasi dibattito culturale anche più pop, che non sa cosa aspettarsi ma desidera solo essere svagato, cercherà di correggere tutto a modo suo, scrivendo lui una sceneggiatura da rappresentarsi lì per lì, come in un desiderio di rivoluzione dal basso delle convenzioni riguardo l'intrattenimento.

Insomma per la prima volta invece di raccontare una situazione attraverso dei personaggi che sono funzionali a quella situazione, Dupieux racconta una serie di personaggi e i loro mutamenti in una situazione che è funzionale ad essi. Da questo contrasto con pistola davanti a un pubblico che lascia emergere le contraddizioni di ognuno, passiamo a una storia di potere e controllo su un palco, in cui chi detiene il potere in ogni momento obbliga tutti a seguire la propria narrazione di ciò che accade. Chi ha la pistola non solo decide cosa si fa ma indirizza l’interpretazione dei fatti.

Potrebbe facilmente essere una dichiarazione programmatica o un attacco ad un certo modo di fare commedia, ma il discorso (per fortuna) è più generale. Stavolta in modo più dichiarato del solito tutto il battibeccare dei personaggi è esso stesso una messa in scena, perché avviene direttamente davanti a un pubblico, a tratti anche divertito, perché i personaggi cominciano a cercare i favori di quel pubblico e scambiarsi i ruoli di buoni e cattivi fino ad un finale abbastanza sorprendente e apertissimo, in cui quello che viene recitato non è chiaro come mai funzioni (con il pubblico ostaggio ma, e questo è il bello, anche con noi!) e ognuno può deciderlo per sé.

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