Y: l'ultimo uomo, la recensione

Y: l'ultimo uomo è una storia post-apocalittica con uno spunto originale ma per ora sviluppato in modo identico a mille altre storie post-apocalittiche

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Y: l'ultimo uomo, la recensione

Cosa succederebbe al mondo se da un momento all’altro tutti i mammiferi maschi (o meglio: tutti quelli dotati di un cromosoma Y) morissero? E non silenziosamente e nel sonno: se cominciassero a spruzzare sangue dalla gola e si spegnessero urlando tra atroci sofferenze? Come reagirebbe il restante ~50% della popolazione mondiale? Come si riorganizzerebbe la società, come sopravvivrebbe un mondo, semplifichiamo, “al femminile” alla post-apocalisse? La premessa di Y: The Last Man era affascinante e ragionevolmente avanti con i tempi nel 2002 quando Brian K. Vaughan e Pia Guerra ne fecero una serie a fumetti, ed è specialmente puntuale nel 2021, e adeguatamente aggiornata alla sensibilità odierna. Per quel che riguarda l’esecuzione, invece, la situazione è più complicata.

Complicata innanzitutto dall’impossibilità di avere uno sguardo d’insieme sull’intera operazione: per ora abbiamo, come farete anche voi il 22 settembre quando la serie debutterà su Star di Disney+, potuto vedere solo i primi tre episodi di Y: The Last Man (qui il trailer). Che da soli bastano a chiarire molte cose, a partire dal motivo per cui un progetto partito nel 2010 è stato rimandato per più di un decennio e trasformato da film per il cinema a serie televisiva: quella di Y è una storia ricchissima, che come molte altre vicende postapocalittiche racconta le avventure incrociate di un buon numero di personaggi diversi e saltabecca dunque in continuazione in giro per l’America. Servono due interi episodi solo per presentare tutti i pezzi, spiegarne le motivazioni e posizionarli sulla scacchiera; e ne serve un altro, il terzo e per ora ultimo appunto, per mettere finalmente in movimento almeno alcuni di questi personaggi.

Escap artist

La serie creata da Eliza Clark ha bisogno di tempo, e se lo prende tutto: esteticamente, ma anche come approccio di scrittura e di gestione dei tempi narrativi, è molto, troppo simile a mille altri show post-apocalittici di questi ultimi anni, il genere di prodotto nel quale tutti i personaggi si muovono sempre con lentezza glaciale e impiegano dieci secondi per decidere cosa fare anche quando devono solo fare due passi. È l’atmosfera, la tensione, l’oppressione di vivere in un mondo dopo la fine del mondo; ma è anche un modo per dilatare lo show fino ai suoi limiti più estremi, con il rischio di lasciare, dopo più di due ore e mezza di visione, un pubblico che non ha ancora capito per chi e che cosa dovrebbe fare il tifo, e in quale direzione si stia muovendo la serie.

Lo ripetiamo un’altra volta: stiamo parlando solo dei primi tre episodi, e non abbiamo idea se i successivi quattro continueranno a comportarsi in questo modo o se lo show acquisterà un po’ di velocità. Rileviamo però che Y: The Last Man è, per ora, intellettualmente stuzzicante e visivamente sontuoso – per quanto molto debitore, più che della pluricitata The Walking Dead, di un film come 28 giorni dopo – ma anche incerto e zoppicante, che procede sulla scorta delle sue grandi idee e di una serie di prove attoriali di altissimo livello (Diane Lane, ma anche il protagonista e unico maschio sopravvissuto alla strage Ben Schnetzer e la sempre sottovalutata Olivia Thirlby) ma che non ha ancora avuto modo di dimostrare una personalità propria che vada oltre il livello della scrittura. Le premesse ci sono, l’occasione anche, ma dopo tre episodi la pazienza è già un po’ meno.

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