Y: l'ultimo uomo, la recensione
Y: l'ultimo uomo è una storia post-apocalittica con uno spunto originale ma per ora sviluppato in modo identico a mille altre storie post-apocalittiche
Cosa succederebbe al mondo se da un momento all’altro tutti i mammiferi maschi (o meglio: tutti quelli dotati di un cromosoma Y) morissero? E non silenziosamente e nel sonno: se cominciassero a spruzzare sangue dalla gola e si spegnessero urlando tra atroci sofferenze? Come reagirebbe il restante ~50% della popolazione mondiale? Come si riorganizzerebbe la società, come sopravvivrebbe un mondo, semplifichiamo, “al femminile” alla post-apocalisse? La premessa di Y: The Last Man era affascinante e ragionevolmente avanti con i tempi nel 2002 quando Brian K. Vaughan e Pia Guerra ne fecero una serie a fumetti, ed è specialmente puntuale nel 2021, e adeguatamente aggiornata alla sensibilità odierna. Per quel che riguarda l’esecuzione, invece, la situazione è più complicata.
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La serie creata da Eliza Clark ha bisogno di tempo, e se lo prende tutto: esteticamente, ma anche come approccio di scrittura e di gestione dei tempi narrativi, è molto, troppo simile a mille altri show post-apocalittici di questi ultimi anni, il genere di prodotto nel quale tutti i personaggi si muovono sempre con lentezza glaciale e impiegano dieci secondi per decidere cosa fare anche quando devono solo fare due passi. È l’atmosfera, la tensione, l’oppressione di vivere in un mondo dopo la fine del mondo; ma è anche un modo per dilatare lo show fino ai suoi limiti più estremi, con il rischio di lasciare, dopo più di due ore e mezza di visione, un pubblico che non ha ancora capito per chi e che cosa dovrebbe fare il tifo, e in quale direzione si stia muovendo la serie.