The Wrestler

Un ex campione di lotta libera cerca di rimettere la sua vita sui giusti binari. Il vincitore del Leone d'oro a Venezia si dimostra un gran film, mentre Mickey Rourke merita assolutamente l'Oscar...

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Recensione a cura di ColinMckenzie

TitoloThe WrestlerRegiaDarren AronofskyCast

Mickey Rourke, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood, Ajay Naidu, Judah Friedlander

Uscita23 gennaio 2009La scheda del film

Curiosa la vita per Darren Aronofsky e Mickey Rourke. Il primo, soltanto due anni fa, veniva massacrato (in parte a ragione) per il deludente e inconcludente L'albero della vita, presentato con grandi attese al Lido. Il secondo è stato impegnato negli anni novanta in pugilato, droghe, maltrattamenti alla moglie, operazioni di chirurgia plastica malriuscite e tante altre cose che non lo rendevano né una star glamour da passerella, né un attore impegnato promosso dalla critica. eppure, entrambi sono stati incoronati all'ultimo Festival di Venezia, il primo ottenendo il Leone d'oro per il miglior film, il secondo come vincitore morale della Coppa Volpi (visto che, come spiegato da Wim Wenders, il regolamento impediva il doppio premio).

Ed è, diciamolo subito, un trionfo assolutamente meritato. Aronofsky compie un lavoro straordinario e quasi invisibile dietro alla macchina da presa, che senza bisogno di parole ci descrive questo mondo (ben diverso dal glamour dei circuiti professionistici di wrestling) fin dall'inizio, peraltro mostrandoci un'America che non vediamo spesso. In effetti, come capita talvolta con il miglior cinema indipendente americano, anche qui sembra di essere ritornati agli anni settanta, magari con una piccola pellicola affettuosa di Hal Ashby piuttosto che un prodotto bigger than life alla Coppola. Si stenta a riconoscere il regista ultratecnico ed eccessivo de L'albero della vita, che riempiva il film di strani angoli di ripresa da 'voglio farmi notare a tutti i costi'. Qui c'è molta camera a mano (soprattutto per comunicarci le emozioni dei protagonisti) e grande misura nel modo di raccontare la storia. Aronofsky riesce a mettere assieme ironia e dramma, bilanciandoli bene e alternandoli spesso in maniera molto rischiosa, come quando si passa da una foto malinconica ad uno spogliarello. Perché, se è vero che la storia in certi punti è un po' programmatica (ed è forse l'unico limite del film), le cose che ti aspetti non succedono comunque nel modo più prevedibile.

Per esempio, che dire dell'idea geniale di seguire il protagonista in un percorso al lavoro come se fosse la passerella prima di un combattimento, resa forse troppo evidente nell'inserimento pleonastico dei rumori della folla? E' solo uno degli esempi migliori di un lavoro frutto di una grande ricerca e comprensione dei personaggi, in cui è chiarissimo come il mondo di questi wrestler semiprofessionisti e un po' malinconici sia stato studiato a fondo. Non oso pensare a cosa sarebbe successo in Italia, probabilmente ci si sarebbe limitati a vedere un paio di spettacoli di wrestling in televisione per atteggiarsi ad 'esperti'. Invece, in una scena straordinaria come il combattimento con lo spillatore folle, emerge tutta la follia e il cameratismo di questo mondo, peraltro in una sequenza che gioca magnificamente col montaggio e col tempo, tanto che andrebbe studiata alle scuole di cinema. E che dire di certi dialoghi fantastici, come quelli sulla Passione di Cristo di Mel Gibson e su Kurt Cobain? Di sicuro, ce li ricorderemo a lungo. La cosa bella è che questo è stato per Aronofsky un film su commissione, ma che si è rivelato assolutamente perfetto per la sensibilità del regista, che tira fuori un ritratto di loser che fa sembrare anche il primo Rocky un prodotto patinato. Certo, non è una pellicola per critici fichetti e pretenziosi, quelli che hanno bisogno di continue metafore e tante cose non dette. Qui tutto è comprensibile e presentato in maniera chiara (anche se spesso sottile), particolare che, per chi adora Il papà di Giovanna o certe pellicole del terzo mondo per ragioni ideologiche più che artistiche, non può certo andar bene.

E veniamo, ovviamente, al lottatore che mette anima, sangue, muscoli, pelle e tutta la sua vera vita per sostenere il film. Mickey Rourke è quanto di meglio una pellicola del genere potesse avere. La cosa incredibile è che rimane in scena praticamente per tutto il film, ma, nonostante questo, non c'è un solo momento in cui il suo personaggio gigioneggia o risulta fasullo per eccesso di egocentrismo. Anche quando straripa, è perfettamente in linea con quello che è realmente il protagonista e quindi va benissimo. Così facendo, tratteggia un solitario malinconico (ma senza che risulti troppo simpatico, elemento fondamentale), che ormai ha rapporti soltanto con wrestler, spogliarelliste e ragazzini. Il tutto mettendo in mostra una vastissima gamma espressiva (e chi dice che ormai il suo volto è mummificato e incapace di recitare, ha bevuto qualche birra di troppo), come in certi momenti impagabili in cui mostra tutto il suo imbarazzo. Rourke, invece di partire col botto (come normale in prodotti del genere) si affida alla "buona vecchia scuola e fa le cose in modo lento" (come dicono due lottatori nella pellicola), con un lavoro ai fianchi di cui all'inizio non ti accorgi, ma che poi ti conquista completamente. E due suoi discorsi sono assolutamente da Oscar (a proposito, la nomination è da dare per scontata, se non vince significa che c'è stato qualcosa di straordinario quest'anno): quello alla figlia al parco di attrazioni e quello prima dell'ultimo incontro. Se non sentite niente, forse è perché avete dei circuiti al posto del cuore o siete proprio morti senza accorgervene. D'altronde, "quello che mi fa veramente male è il mondo esterno", più chiaro di così.

In questo show personale del veterano attore, sarebbe facile dimenticare gli altri interpreti. Ma sarebbe anche un errore. Marisa Tomei dimostra di essere una delle attrici più intelligenti in circolazione per come sceglie i ruoli e ormai dimostra una maturità che pochissime sue colleghe americane possono vantare. Non vi stupite di vederla riconosciuta da diverse associzioni e premi (ovviamente, come non protagonista). E anche Evan Rachel Wood conferma tutto il suo talento variegato, soprattutto perché dopo Thirteen è stata brava a non farsi etichettare, grazie a parti importanti in pellicole come Litigi d'amore, Correndo con le forbici in mano e Across the Universe. Ma il panorama è ancora più scintillante. Sfido a trovare un ruolo (anche di pochi secondi) che non funzioni, che si tratti dell'ironico capo del protagonista al supermercato o delle decine di fantastici lottatori che vediamo. Sembrerà un particolare da poco, ma sono proprio cose come queste che dimostrano la differenza tra cinema americano ed italiano.

Forse, per arrivare ad utilizzare il termine capolavoro (che io uso con molta parsimonia), ci voleva qualcosina di più complesso per quanto riguarda la trama. Ma nel momento in cui si decide di fare un film di questo tipo, difficile superare The Wrestler per intensità ed emozioni...

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