Work it, la recensione

Work it è un coming of age acqua e sapone che con poche pretese ma buone dosi di comicità evita furbamente ogni tipo di rischio

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Diretto da Laura Terruso, autrice newyorkese di commedie indie, Work it è un coming of age acqua e sapone centrato per il suo target adolescenziale, che con poche pretese ma buone dosi di comicità (sinceramente divertenti) procede liscio come l'olio secondo ogni previsione di trama. E tenendosi stretto ai clichè, ai personaggi-macchietta e all'inerzia del racconto, evita furbamente ogni tipo di rischio.

Quinn (Sabrina Carpenter) è già come personaggio la tipica adolescente cinematografica un po’ nerd, carina ma trascurata, che all’ultimo anno di liceo ha già la vita pianificata. Ha voti alti, fa attività extra-curriculari e ha ovviamente una sola amica, Jas (Liza Koshy) che è tutto il contrario di lei: Jas infatti è una ballerina della famosa crew scolastica a cui poco importa di studiare. Quinn sogna invece di andare al college che frequentava il defunto padre, e tutto sembra prometterle quel destino ma… al colloquio d’ammissione l’intervistatrice cerca candidati appassionati, di talento, tutto il contrario dello stereotipo che incarna. Presa dal panico Quinn dice allora di essere una ballerina, e effettivamente fa colpo. Ma l’intervistatrice è guarda caso una grande fan della crew della sua scuola e non vede l’ora di vederla ballare al noto contest Work it: Quinn è allora costretta a diventare davvero una ballerina o il suo sogno andrà in frantumi.

Procedendo ritmato e scorrevole tra pochi intoppi e tanti sorrisi, Work it affronta il tema privilegiato del teen movie, ovvero la difficoltà quasi necessaria di dover inseguire i propri sogni, ribadendo l’idea, l’insegnamento che ha cresciuto a suon di film “del cuore” le generazioni dei Novanta che avere una passione, per quanto improbabile, è sempre la cosa giusta, e che se lavorerai per mostrarla agli altri andrà tutto bene (quasi fosse più un dover essere legittimati da parte del prossimo, amici o famiglia, che una soddisfazione personale). E il positivismo edulcorato qui non manca, anzi abbonda, ma ha il merito di non compiacersi troppo e anzi di sapersi prendere in giro, non premendo troppo né sul melenso né sulla risata forzata, in un equilibrio quasi inspiegabile.

Naif ma non ingenuo, semplicissimo senza essere noioso, Work it riprende gli spunti comici indie della Terruso (che qui ha solo diretto), che per esempio già in Good girls get high parlava di liceali nerd che uscendo dagli schemi scoprono il vero sapore della vita. Qui l'happy ending è assicurato, il giusto destino del personaggio è prevedibile, e pur nella totale scombinazione dei piani tutti sono sereni e pieni di fiducia nel futuro, animati di ottimi sentimenti. E così deve essere, come richiede la regola tacita. Ma allo stesso tempo la visione registica è quasi assente, così come una qualche inventiva visiva, e il film si presta a essere più un prodotto da catalogo per la piattaforma che un tassello nella filmografia di una autrice. Pure i momenti di danza, che a livello di storia sono estremamente importanti, sono alla fine di poco spessore visivo, quasi mediocri: il film non punta quindi in nessun modo sulla spettacolarità ma si accontenta di essere carino, simpatico. E ci riesce anche bene.

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