Wonder: White Bird, la recensione

La storia di Wonder è completamente stracciata in White Bird, ambientato decenni prima e centrato su una trama di Olocausto

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Wonder: White Bird, sequel/spin-off di Wonder al cinema dal 4 gennaio

Wonder era un film del 2017, tratto dal romanzo omonimo, su un bambino di 11 anni con una sindrome che gli deforma il volto e il cranio, sulla sua vita e le difficoltà umane e sentimentali sue e dei suoi genitori. Un lacrima-movie esemplare che aveva avuto un successo tale, già nella forma romanzo e poi in quella fimica, da meritarsi un sequel che, non è ben chiaro perché, è ambientato nella francia della seconda guerra mondiale, ed è una storia di Olocausto. Il film originale era ambientato nel presente, questo è una specie di spin-off su Julian, personaggio marginale della scuola in cui andava quel protagonista, un bullo, e di quello che sua nonna (Helen Mirren!) gli racconta della sua infanzia da ebrea perseguitata. Sostanzialmente Wonder: White Bird non ha niente a che vedere con Wonder né nella storia, né nella realizzazione, né nel genere, nei temi o nei riferimenti. In originale si intitola solo White Bird ma noi abbiamo premuto l’acceleratore sull’opportunismo e ci abbiamo aggiunto Wonder

Assodato questo, cioè che questo film (come la graphic novel da cui è tratto) usa il titolo di un altro film di grande successo ma non ha niente in comune con quello, va anche detto che Wonder: White Bird questo atteggiamento opportunista con il quale è stato concepito lo estende anche alla propria scrittura e realizzazione. Questa è la storia di una ragazza che viene nascosta da alcuni francesi, e del continuo rischio di essere scoperti dai nazisti che vessa la loro vita. È quindi una storia da Anne Frank, in un certo senso, in cui vengono ampiamente coltivati i sentimenti dei personaggi (la famiglia che la nasconde ha un figlio della sua stessa età) con il solo fine di distruggerli o frustrare il nostro desiderio di vederli realizzati.

Il climax sentimentale e lo svolgimento emotivo del film (che sono il punto di tutto) quindi hanno come obiettivo il senso della tragedia che pervade qualsiasi film sull’Olocausto. La storia dei personaggi esiste solo in relazione alla possibilità dei nazisti di scovarli e separarli, come in un thriller, è quindi unicamente funzionale alla conseguente commozione per la cattiveria umana contro le candide anime protagoniste. Il film è solo questo e nient’altro, un modo per fare in modo che il pubblico possa odiare con comodo (e con ottime ragioni!) chi già odia dal primo momento in cui compare sullo schermo. La bontà del punto di vista e l'innegabile correttezza dello schieramente di Wonder: White Bird non giustificano però una simile povertà narrativa, a fronte velleità artistiche sbandierate nella fotografia, nella recitazione (basterebbe la scelta di Helen Mirren ma c'è anche Gillian Anderson) e negli intenti morali. C’è una morale giusta nel raccontare le persecuzioni naziste, ma non ce n’è nessuna nel fare un film che le sfrutta per posizionarsi tra i giusti invece che per creare un racconto coinvolgente, sensato, intelligente.

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