Wonder Park, la recensione
Con poca sagacia e molta banalità Wonder Park esplora il superamento delle difficoltà infantili tramite la grande metafora del parco
Ci sono tantissimi problemi in questo cartone animato tecnicamente ineccepibile, capace di fare azione benissimo, in modi complicati e complessi ma anche comprensibili e artisticamente stupefacenti (stupenda la maniera in cui è gestita tutta la parte di illuminazione). Nella trama il parco in disuso e i suoi abitanti immaginari sono minacciati da una grande ombra (cioè la tristezza e la fine della spinta fantasiosa) che di fatto è come il Nulla di La Storia Infinita, ma senza quella componente così spaventosa di fine di tutto, e la lotta combattuta è sempre finalizzata all’esaltazione della protagonista, al racconto di che persona fenomenale sia, che bambina da tutti adorata e ammirata. Questo ricorda un po’ il femminismo didascalico e abbastanza inefficace (perché troppo smaccato) di Nelle Pieghe Del Tempo, come se la sceneggiatura fosse stata scritta da un preside di una scuola elementare ben intenzionato e avesse al centro la figlia del sindaco.
E tutto questo senza considerare che l’intero impianto del film è preso di sana pianta da Inside Out. Il viaggio nel parco che sarebbe il mondo interiore alla protagonista, in cui delle strutture che crollano simboleggiano il crollo di valori e idee, fatto con degli aiutanti colorati e che culmina con l’accettazione di quella parte spiacevole che inizialmente è combattuta, è un’idea della Pixar e Wonder Park non fa che ricordare a chi abbia visto quel film, la differenza che esiste tra chi una nuova mitologia sa fondarla ed esplorarla e chi invece la segue, sostituendo un po’ di rischio e di sagacia in scrittura con tanto più desiderio di piacere a buon mercato.