Wonder Park, la recensione

Con poca sagacia e molta banalità Wonder Park esplora il superamento delle difficoltà infantili tramite la grande metafora del parco

Critico e giornalista cinematografico


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Esiste una grande tradizione statunitense di film sull’elaborazione del lutto. Spesso hanno al centro dei bambini e quasi sempre usano una grande metafora per raccontare il superamento della condizione luttuosa senza parlare davvero di morti (almeno fino alla scena in cui non si capisce che era una metafora). È il mostro di Sette Minuti Dopo La Mezzanotte o la ricerca al centro di Molto Forte, Incredibilmente Vicino, e qui è un grandissimo parco giochi in disuso, Meraviglialandia. Quel parco esiste nell’immaginazione della protagonista e lì l’ha costruito assieme alla mamma, da poco ospedalizzata per quella che pare una malattia terminale. Quel parco è il mondo di fantasia e creatività che la madre stimolava nella protagonista e che lei non vuole affrontare perché gliela ricorda troppo. L’avventura immaginaria per salvare il parco sarà un modo per superare le paure della morte della madre.

Ci sono tantissimi problemi in questo cartone animato tecnicamente ineccepibile, capace di fare azione benissimo, in modi complicati e complessi ma anche comprensibili e artisticamente stupefacenti (stupenda la maniera in cui è gestita tutta la parte di illuminazione). Nella trama il parco in disuso e i suoi abitanti immaginari sono minacciati da una grande ombra (cioè la tristezza e la fine della spinta fantasiosa) che di fatto è come il Nulla di La Storia Infinita, ma senza quella componente così spaventosa di fine di tutto, e la lotta combattuta è sempre finalizzata all’esaltazione della protagonista, al racconto di che persona fenomenale sia, che bambina da tutti adorata e ammirata. Questo ricorda un po’ il femminismo didascalico e abbastanza inefficace (perché troppo smaccato) di Nelle Pieghe Del Tempo, come se la sceneggiatura fosse stata scritta da un preside di una scuola elementare ben intenzionato e avesse al centro la figlia del sindaco.

Il film inoltre di suo fa pochissimo per stabilire una relazione con i suoi spettatori che non sia fondata sulla condivisione del divertimento per pernacchie e boccacce. Già è difficile che ad un bambino con i genitori in vita (e sani) interessi la grande metafora della paura della loro morte, in più tutta l’energia sembra andare verso “l’istruzione” invece che la condivisione di qualcosa che abbia un senso nelle loro vite. Forse per questo non è stata approfondita anche l’unica parte che poteva essere originale, cioè lo strano rapporto tra la protagonista e la scimmia che crea il parco, una la mente e l’altra la mano, il software e l’hardware, la musa e l’ingegnere.

E tutto questo senza considerare che l’intero impianto del film è preso di sana pianta da Inside Out. Il viaggio nel parco che sarebbe il mondo interiore alla protagonista, in cui delle strutture che crollano simboleggiano il crollo di valori e idee, fatto con degli aiutanti colorati e che culmina con l’accettazione di quella parte spiacevole che inizialmente è combattuta, è un’idea della Pixar e Wonder Park non fa che ricordare a chi abbia visto quel film, la differenza che esiste tra chi una nuova mitologia sa fondarla ed esplorarla e chi invece la segue, sostituendo un po’ di rischio e di sagacia in scrittura con tanto più desiderio di piacere a buon mercato.

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