Wonder, la recensione
Fermamente determinato a comuovere, Wonder riesce bene a farlo ma trasformando per la prima volta la formazione individuale in un'incredibile sforzo collettivo
Wonder è un piccolo all star game della lacrima. C’è il bambino-attore di maggiore talento in circolazione (Jacob Tremblay), mascherato e truccato fino a essere irriconoscibile, c’è un regista specializzato nella tenerezza e nelle storie di ragazzi (Stephen Chbosky di Noi Siamo Infinito) e uno sceneggiatore dalla mano pesante quando si tratta di far piangere con i sentimenti positivi (Steve Conrad, già responsabile di La Ricerca Della Felicità e I Sogni Segreti di Walter Mitty) che adatta un libro di successo il quale a sua volta racconta una storia vera.
Eppure Wonder rimane soprattutto un film di attori, nello specifico un film di Owen Wilson e Julia Roberts, i genitori di Auggie. I due giocano di sponda, lavorano ai fianchi lo spettatore e nel raccontare del figlio mettono in realtà in scena i loro di sentimenti. Il senso di esclusione e del desiderio di integrazione di Auggie infatti non espresso dalle sue peripezie ma dalle azioni e reazioni dei genitori rispetto ad esso. E per fortuna!
Nonostante una determinazione ferrea a tirare tutte le lacrime possibili dagli occhi di ogni spettatore puntando sull’esposizione dei sentimenti più cristallini che trionfano sui peggiori, sulla tenerezza, la pietà e un’irredimibile tendenza a trovare in ogni svolta un anfratto commovente, Wonder proprio lavorando di sponda sul resto del cast riesce a trasformare il processo di crescita e maturazione di un bambino in un lavoro di squadra. La storia di come Auggie abbia affrontato il mondo reale, e quindi le sue paure e i timori di essere giudicato dall’apparenza, è un trionfo umano e personale che Wonder racconta come uno sforzo collettivo, con tanto di ringraziamenti finali del bambino a tutti i personaggi che lo hanno aiutato. E così diventa subito più universale: un bambino come terminale dell’instancabile lavoro che avviene dietro le quinte della sua vita.
In questo lavoro sembra trionfare silenziosamente Owen Wilson, attore completo e sempre più a suo agio nei piccoli film intimi. Sta ai margini ma non in vacanza, mai fuori posto, fa l’uso migliore del poco minutaggio a sua disposizione, non ha diritto nemmeno a una scena importante o cruciale, eppure è lui a creare il senso di famiglia, comunità e affetto che regge il film. Diventato noto per l’attitudine alla commedia, si rivela sempre più perfetto in storie personali da uomo ordinario, come questa o Io e Marley (dove grazie a lui un film “di cane” diventava anche in un film di uomini).