Venezia 69: To the Wonder, la recensione

Complementare e quasi ripiegato sulle idee e i concetti di Tree of life, ma decisamente più rivolto al contingente e al "micro", il nuovo film di Terrence Malick non delude...

Critico e giornalista cinematografico


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La grazia e brutalità, i due istinti fondamentali intorno ai quali The Tree of life faceva scorrere la genesi del pianeta, della vita stessa e in particolare anche le esistenze della famiglia protagonista, sono la dialettica che anima il rapporto della coppia di To the wonder. La ricerca di sentimenti da vivere e di un profondo, è contrapposta alla brutalità della gelosia, del tradimento e del modo di gestire i rapporti. La materialità che contrasta con la spiritualità ovviamente, l'assoluto con il contingente. In mezzo c'è tutto il pianeta, non solo gli uomini, come sempre in Malick.

Grazie ad una fotografia ricalcata sul modello originale da Lubetzki To the wonder rassomiglia molto a The Tree of life e voce vuole che molto del materiale appartenga allo "scartato" del secondo. Si tratta ovviamente di scartato eccezionale (e altro ce n'è, visto che Michael Sheen e Rachel Weisz non sono presenti), perchè come al solito Malick mostra gli elementi del pianeta con la medesima centralità e concentrazione con la quale mostra gli esseri umani. Un filo d'erba come una persona, un raggio di luce sull'acqua come un'espressione facciale, la marea che lentamente conquista ogni avvallamento del terreno sabbioso come un balletto.

Il racconto procede come sempre con dialoghi o fuori campo o in controcampo, raramente Malick inquadra chi parla, il suo sguardo sembra arrivare poco prima o poco dopo quel che si sente in un continuo ipotetico fuori sincrono, allo stesso modo in cui spesso, nel mostrare una scena, la macchina da presa si lascia incuriosire più dagli elementi naturali che dagli attori.

In più il passo lento malickiano stavolta si arricchisce di una pluralità di lingue al centro della quale c'è più il francese che l'inglese, dialoga con il sacro attraverso il prete di Javier Bardem, che nella sua ansia per il silenzio e l'assenza di Dio dalle questioni materiali sembra replicare la dialettica grazia/brutalità della coppia.
Il risultato è un film delicatissimo, un dramma romantico di inarrivabile tenerezza, nel quale si ritrovano i giardini razionalizzati del finale di The New World e i campi di grano al tramonto di I giorni del cielo e in cui la ripetizione e l'ossessione naturalista invece che volare altissimo cercano di scendere incontro alle vicende delle persone, questo lo rende meno clamoroso, audace e totalizzante di The Tree of life, ma in un certo qual senso appare come un'indispensabile seguito che lo completa (se mai ce ne fosse stato bisogno).

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