The Wolf of Wall Street, la recensione

Scorsese trova un soggetto nelle sue corde, lo trasforma nella cronaca della più grande perdizione immaginabile e ritrae la depravazione della finanza. Il migliore...

Critico e giornalista cinematografico


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Qualunque regista o sceneggiatore con ambizioni commerciali desidera fare film con un gran ritmo. Esiste però un limite, un confine oltre il quale si finisce nel sovraeccitato e caotico, oltre il quale il film non appare più coinvolgente ma malsano. Quella è la "zona Scorsese".

Una parte della filmografia di questo incredibile cineasta è dedicata al caos, alla frenetica rappresentazione di un'interiorità distrutta, quasi sempre a causa delle droghe (sempre eccitanti e mai rilassanti) e del devasto personale, una rappresentazione formale di quella che è (per l'autore) la caratteristica saliente di una certa condizione umana, quell'abisso che ama guardare con timore. E' l'ambizione smisurata di non mostrare l'eccitazione della droga ma di comunicarla con la messa in scena. The wolf of wall street è così.

Benchè tutti sappiamo che è una storia di finanza, di eccessi e di ricchezza, la vera sorpresa è quanto sia in realtà una storia di depravazione umana, di rovina fisica e materiale del proprio corpo e della propria mente attraverso l'abuso di qualsiasi droga, il più riuscito tentativo di mostrare con le immagini la dipendenza dall'eccitazione.

Se per Scorsese ogni peccato viene inevitabilmente scontato (ma non in chiesa, come diceva in Mean Streets, quanto "nelle case, per le strade") allora la tragedia economica che oggi investe l'occidente dev'essere per forza figlia di allucinanti depravazioni. Per questo il suo Jordan Belfort (broker realmente esistito alla cui biografia si ispira il film) vive gli anni '80 e '90 in un oceano di maledizione, in una Sodoma e Gomorra che pare non avere limiti, neanche quando arriva la legge. Impossibile immaginare la soddisfazione di Scorsese nel leggere la biografia di Belfort e trovare l'anello di congiunzione tra la realtà e la sua maniera di intenderla.
The wolf of wall street non vuole indagare le cause della crisi odierna ma far sentire nello stomaco la violenza e l'abisso depravato di una categoria di uomini, far provare ribrezzo per gli eccessi e i deliri deregolamentati fino a suggerire che forse le conseguenze non potevano che essere questa situazione.

Per questo è tra i film più fenomenali ed estremi del regista, nonchè già uno dei più importanti del 2014, uno in cui il suo rigore muscolare i suoi movimenti inesorabili, forti e quasi matematici si fondono con un delirio a cui Scorsese sembra non prendere parte sempre per un pelo.

Con un andamento simile alle fasi della droga (a momenti sovraeccitati e adrenalinici, seguono altri calmi e rilassati), questo film di finanza non parla mai veramente di finanza ma del potere esercitato attraverso il dominio e della perdita di ogni controllo di uomini pronti a tutto per denaro che vivevano in una società affamata di ricchezza, disposta a credere alle promesse di uno sconosciuto al telefono, un ambiente in grado di catalizzare avidità, lussuria, ira e superbia sfrenate.

La compagnia che Belfort mette in piedi, la sua "tana del lupo", è uno straordinario coacervo di maschilismo eccessivo e ossessivo, un luogo di violenza e sopraffazione cameratesca, pieno di prostitute e droga (eccezionale la presenza continua di atti sessuali davanti a tutti, senza remore), il posto in cui fare denaro coincide con la sua trasformazione in un vizio continuamente esibito e celebrato nelle peggiori dinamiche di branco.

Su tutto questo film eccezionale regna la droga, fiumi di droga da stemperare nel sesso tanto frequente quanto poco vissuto (esilarante la messa in scena umiliante delle prestazioni da sobrio). Ed è evidente come questo sia l'ambito su cui più di tutti è il regista a volersi soffermare, quello a cui regala i momenti più potenti e la componente che pare sconvolgerlo e al tempo stesso coinvolgerlo di più. Non è difficile identificare in un ambiente di persone troppo giovani, diventate troppo ricche, troppo in fretta e con troppa disponibilità di donne e stupefacenti, la presenza di una madeleine per l'autore (sebbene non a quei livelli). Nel fare questo film sulla finanza e sul peccato che determina la pena odierna, in realtà Scorsese sembra guardare anche al proprio passato, una forma di elaborazione di cosa significhi non avere freni di sorta e disporre di tutto annebbiato dalla droga.

Jordan Belfort diventa così uno dei più coinvolgenti e autentici ritratti del desiderio e dell'onnipotenza. La brama di possedere e fagocitare ogni sensazione, la noia incredibile di essere sobri e la volontà di arrivare alla massima eccitazione continuamente.

L'unico rimpianto che può rimanere è che un film così straordinario non l'abbia scritto Paul Schrader.

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