Wolf Creek 2, la recensione

Con un gusto spiccato per l'efferatezza mai mitigato nè dal piacere epidermico, nè da un'idea più profonda, Wolf Creek 2 è solo una spremuta di sangue

Critico e giornalista cinematografico


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Wolf Creek è l'horror da festival (il primo andò a Cannes, questo a Venezia), nato come la periodica incursione minimalista nelle terre di nessuno australiane (non è chiaro perchè ma gli spazi sconfinati sono il terreno preferito dei cineasti indipendenti australiani, il luogo in cui possono far accadere tutto senza fare niente) ed ora evoluto in piccolo franchise di minuscolo interesse.

Efferato come l'eredità del primo gli impone, il sequel ripropone l'idea di raccontare quel che non si sa a partire da eventi reali. Le reali sparizioni all'interno del grande paese australiano, esseri umani mai ritrovati oppure ritornati in condizioni precarie sia fisiche che mentali. Spesso c'era un noto serial killer (fatto da cui parte il film precedente) stavolta invece l'origine della follia del protagonista non è data ma il film ci ricama unendo arbitrariamente questi fatti a quelli del precedente.
L'aria della pretestuosità è insomma molto forte.

Spunti realisti a parte Wolf Creek 2 si propone di essere meschino con i propri personaggi, applica il sadismo di Eli Roth al contrario, non portando i compatrioti in terra straniera ma degli stranieri in terra australiana. Partito dunque come un'epopea xenofoba, il sequel prosegue massacrando anche i conterranei. In questi film è come se esistesse un nazione dentro la nazione, non diversamente da quel che si percepisce nell'horror da provincia degli Stati Uniti (Un tranquillo weekend di paura, Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi...), ci sono dei territori che fanno giurisdizione a sè nei quali non solo non vige la legge di città, ma anche i connazionali sono vissuti come stranieri. Sono territori di orrore perchè affermano che dove manca la civiltà regna il genere horror, posti in cui situazioni da poliziesco (il film inizia con due agenti della stradale che fermano il killer) finiscono nell'orrore.

Greg McLean però non ha intenzione di muoversi su quel delicato crinale tra mostruosità degli assassini e condanna di una società che li ha creati mettendoli ai margini, considerandoli i propri rifiuti, non fa etnografia di paura a lui interessa più essere come Eli Roth, appassionato della carneficina e creativo del gore. È questo il limite principale di Wolf Creek 2: perdere ogni spunto interno alla sua epopea rurale di violenza e squartamento.

A fronte di tutto questo infatti il film non è nemmeno dotato di un gusto epidermico per la tensione e l'aberrazione che possa compensare. Superficiale per superficiale non ha nemmeno le qualità di immediatezza e appeal per bastare a se stesso.

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