Wolf Children, la recensione

Presentato al Future Film Festival un capolavoro d'animazione che viene dal Giappone. Uno dei film più profondi, toccanti e potenti dell'anno, che usa il fantastico solo per raccontare il reale...

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Che non ci si trovi di fronte ad un film ordinario è chiaro fin dai primi minuti. Quando la banale storia d'amore tra una ragazza e un ragazzo conosciutisi all'università è raccontata attraverso la voce fuoricampo di una figlia dei due, con una partecipazione e insieme un lieve senso di affetto verso il ricordo della vita da giovane della madre che costituiscono un'esperienza filmica inedita. Vedere qualcosa, sinceramente, attraverso lo sguardo e le sensazioni di uno dei protagonisti sarà infatti la cifra di Wolf Children per tutto il resto di un film che, dalla storia d'amore dei genitori arriva a raccontare (sempre con voce fuoricampo) la nascita e la formazione dei due figli nati da quell'amore, il remissivo Ame e l'espansiva Yuki (la maggiore è la voce narrante).

Se ai più attenti e documentati il nome di Mamoru Hosoda non suona nuovo (grazie a La ragazza che saltava nel tempo), per tutti gli altri sarà una scoperta clamorosa e illuminante. Questo film animato dai toni naturalistici e dalle scelte umaniste è probabilmente l'opera più sconvolgente e disarmante dell'anno, un film di una sincerità e un'onestà sentimentale rare, che per arrivare a toccare l'esperienza di ogni spettatore e smuoverne le emozioni inserisce nel suo racconto un solo piccolo elemento fantastico. Yuki e Ame sono bambini lupo, cioè possono passare dallo stato umano a quello animale (più uno ibrido) a piacimento perchè il padre era l'ultimo uomo lupo del Giappone mentre la madre no. Da questa caratteristica non scaturiranno avventure, solo difficoltà nel vivere che sono una versione enfatizzata di quelle che toccano ad ogni bambino, ogni adolescente e ogni madre. Come nella letteratura ottocentesca europea il fantastico è utile a mettere la lente su certi aspetti del reale.

Sebbene disegnato senza una sfrenata immaginazione (anzi!), Wolf children è capace di trovare i suoi momenti migliori non tanto in una soluzione visiva nuova, potente e impressionante, quanto in un dialogo, in una confessione o nella maniera minuziosa con la quale anima e rende veri i movimenti e la crescita dei bambini. Sembra di vederli cambiare di scena in scena, diventando sempre un po' più grandi, grazie ad atteggiamenti e mosse perfette.

Si piange e molto, lungo tutto il film, ma non di tristezza. E' la commozione che scaturisce dall'esposizione nuda dell'umanità delle persone, dei loro desideri e della loro paure, quando le pulsioni che si nascondono dietro ai gesti si fanno evidenti (che non vuol dire esposte, è sempre lo spettatore che le comprende non i personaggi che le dichiarano).

Com'è facile capire da Wolf children, Hosoda viene dalla scuola Miyazaki (la casa in campagna dove si trasferiscono i protagonisti sembra proprio quella di Il mio vicino Totoro) ma è riuscito a staccarsene quanto basta per trovare una propria autonomia. La trasformazione in animale, già vista in Porco Rosso, qui non è un'allegoria diretta (per l'aviatore era l'ignavia, solitamente attribuita ai maiali) quanto un espediente narrativo per rendere tutto più difficile, il rapporto intenso con la natura non è salvifico ma anzi porta moltissimi problemi, non c'è la sistematica fusione di buono e cattivo ma l'annullamento di un punto di vista che consenta il giudizio. Insomma Hosoda si muove dal cinema di Miyazaki per andare da altre parti e per questo paragonarlo al maestro indiscusso sarebbe ingiusto e penalizzante.

Continua a leggere su BadTaste