Wish, la recensione

Il film del centenario della Disney funziona come l'origin story dell'etica di un immaginario. Eppure Wish non a trovare una sua autonomia

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del nuovo film d'animazione Disney, Wish, nelle sale dal 21 dicembre

È un inganno quello che apre Wish, cioè l’apertura del grande libro delle fiabe come accadeva nei cartoni classici dello studio. Ma non siamo in quel mondo della tradizione che viene rivista e adattata da Disney, non siamo di fronte a un racconto dei Grimm o di qualche altra tradizione, rimessa in scena per una sensibilità moderna. Stavolta siamo un regno in cui a dominare è una dittatura soft, aggiornamento disneyano dei reami con regine cattive di cui però non vediamo mai il popolo, una in cui i sudditi approvano le regole del regnante e appoggiano i suoi metodi liberticidi, convinti dalla sua propaganda. Di tutto questo si rende conto la protagonista nel momento in cui sta per diventare sua aiutante: il re non conserva i sogni del popolo per farli avverare una volta l’anno, ma per controllarli evitando che i sogni potenzialmente sovversivi si avverino e materializzando solo i più innocui. In fuga dal pericolo, riceverà l’inatteso aiuto proprio della stella a cui ci si rivolge di solito, che scende tra i personaggi e insieme alla classica banda di outsider tenta il grande colpo di stato.

Wish è chiaramente una storia esterna al libro delle fiabe, perché l’origine del libro delle fiabe (cioè il complesso di quei racconti) è il suo argomento. Concepito per festeggiare i 100 anni dello studio è una gigantesca origin story dell’etica dell’immaginario Disney. La storia della stella a cui ci si rivolge affidandole i propri sogni è quella di Pinocchio e Cenerentola, ma anche quella verso cui vola Peter Pan, che guarda sognante la protagonista di La principessa e il ranocchio o a cui si rivolge in cerca di un salvataggio Penny di Bianca e Bernie e via dicendo. Avere dei sogni a cui tenere, inseguirli, non arrendersi e industriarsi per raggiungere un obiettivo fino alla grande vittoria finale, è solo un’altra versione dell’etica della dedizione e del risultato americani, con in più un elemento di magia e di fantastico.

Peccato che questa missione celebrativa del film ne soffochi l’autonomia. Wish sembra esistere per assemblare una serie di elementi che appartengono all’immaginario Disney più che per raccontare una storia nuova con efficacia. È un assemblaggio che vive di trovate incredibilmente pigre e dozzinali (ogni tanto appaiono dal nulla personaggi noti, senza motivazioni o di altri scopriamo che hanno un nome familiare senza che ciò abbia un’economia nella storia), come di altre estremamente promettenti che tuttavia non sono sfruttate. È il caso della natura stessa del personaggio della stella, che è il tocco Disney in sé, ciò che può trasformare il mondo in un universo disneyano, che fa parlare gli animali e attribuisce caratteri antropomorfi ai fiori (come quelli delle Silly Symphonies). 

Eppure non è questo che preme raccontare a Wish, che è più la storia di una ragazza che vuole ribaltare il governo del proprio paese e per farlo tenta un’impresa disperata con scarso senso dell’avventura e poca precisione nell’azione. Non è insomma l'esfiltrazione di Fra Tuck in Robin Hood, in cui la disposizione dei personaggi nell’ambiente e i rapporti di causa e forza che scatenano l’azione sono così chiari da creare una grande tensione ed eccitazione per l’avventura, è più una rapida e confusa celebrazione dell’ardore scriteriato che con molta fortuna porta una vittoria. È allora la parte visiva la più interessante, l'idea di provare (finalmente) a cercare uno stile che non sia nè il 2D a mano classico, nè quello in computer grafica pupazzoso simil-realistico fondato dalla Pixar, ma una via di mezzo che espone il tratto disegnato come fosse un vanto e lo rende la trama delle superfici, che è comunque in computer grafica ma, come tutto il film, si presenta come la celebrazione di una eredità, protetta da una teca di modernità.

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