Wild, la recensione [2]
Pieno di amore per i grandi spazi e convinto della necessità di lasciare la civiltà Wild non ha dubbi e alla fine buonista com'è sembra riuscito solo a metà
La vera storia di Cheryl Strayed e il suo viaggio a piedi lungo la Pacific Crest Trail (un percorso noto e molto battuto dagli amanti del viaggio a piedi in mezzo alla natura) filtrata dalla penna di Nick Hornby e dall'occhio non certo duro ma anzi galante e gentile del regista di Dallas Buyers Club (un film su drogati, malati di AIDS, travestiti e razzisti senza nemmeno un momento realmente duro) diventa un'avventura poco avventurosa e molto contemplativa, in cui quel che accade non dice molto sul mondo in cui vive la protagonista quanto sulla protagonista stessa.
Per questo motivo sembra un film riuscito a metà. Hornby e Vallée vogliono guardare una donna sforzarsi di cambiare davvero per sopravvivere nelle terre selvagge (la metafora è lì ad un passo, sembra quasi di vederla e poterla toccare) e non si chiede mai se la sua decisione sia opportuna, non si chiede se quella natura tanto esaltata, quell'approccio naturalista così invidiato dalla fotografia di Yves Belanger sia poi davvero auspicabile. Con ogni inquadratura Wild dichiara amore per la natura ma anche distanza, come chi sogna paesaggi esotici guardando l'immagine dello sfondo del proprio computer da un ufficio, senza sapere molto di quel che desidera.
Tutto concentrato a mettere in scena il sogno metropolitano dell'abbandono delle spoglie civili per una riscoperta della "vita vera", Wild dimentica che forse quel sogno cela delle parti da incubo e si limita a creare delle difficoltà contingenti (un infortunio, un oggetto che manca, l'incontro con individui poco raccomandabili) come se lo scenario fosse neutro.