Wild Diamond, la recensione | Cannes 77

Non ha nessuna personalità Wild Diamond, e quindi nonostante una buona fattura, non ha niente con cui reggere tesi fragili

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Wild Diamond, film in concorso al festival di Cannes

Non c’è niente di più complicato per un film con ambizioni di operare una critica ai social media. Il rischio di finire nell’incrocio peggiore, quello per il quale il tema è trattato con la solennità delle cose più importanti ma anche con il semplicismo di chi conosce poco ragionamenti e implicazioni di ciò di cui parla, è altissimo. Wild Diamond ci finisce con tutti e due i piedi. Non considera l’effetto del profluvio delle immagini sulle persone e si concentra sulla parte più evidente e scontata, cioè l’esasperazione dei modelli di bellezza e la costruzione di questa bellezza come forma di successo illusorio. I soliti spauracchi.

Il fatto è che Wild Diamond proprio non ha una sua personalità ma ne prende in prestito una dall’estetica e dal linguaggio del cinema di camminate & disperazione, con quasi nessuna variazione. È il tipo di film europeo, volentieri filmato in 4:3, in cui si segue un personaggio molto autentico e molto urbano nelle sue peregrinazioni solitamente a piedi, manifestazione dell’energia dei protagonisti e della loro ricerca, della loro inquietudine e voglia di uscire da un contesto solitamente derelitto, difficile e problematico. Sono film che raccontano un momento della vita, solitamente cruciale perché foriero (forse) di una via d’uscita, inseguita con furia. Può essere un lavoro come in Rosetta, o la conquista della libertà come in American Honey o il crimine come Daphne di Fiore. In Wild Diamond sono i social e la costruzione di un’immagine attraente che possa aprire le porte del successo nei reality e quindi della fuga dalla povertà: “Il successo è potere e il potere porta guadagno” viene detto. 

Di certo sono film in cui la società non c’è mai per questi personaggi nervosi, che urlano, con i quali non si può discutere, determinati e abituati ad aggredire per relazionarsi, ma in fondo fragili quando arriva il dunque o irrompono i sentimenti, interpretati quasi sempre da attori presi dalla strada con corpi perfetti per la parte (ed è proprio il caso di Malou Khebizi, che con la sola presenza è l’unica a portare un po’ di vera umanità). Corpi che da soli spiegano un carattere e una condizione. Sono queste storie che il cinema racconta da decenni, parabole non diverse da quella di Giulietta degli spiriti, in cui le trame sono un pretesto,un McGuffin per mostrare un contesto a partire dall’illusione di una via d’uscita, attraverso lo sforzo disperato e la frustrazione del fallimento, e fino a un finale senza redenzione che non chiude nulla ma annuncia rassegnazione.

La rassegnazione di questa protagonista sarà tutta legata allo sguardo maschile più becero, quello dello spogliarello, che concepisce la donna come oggetto del piacere da noleggiare, tirando un parallelo abbastanza arbitrario con il mondo del successo attraverso la propria immagine. Non gli interessa l’agentività del soggetto (bassa nello spogliarello, alta nella gestione della propria immagine) né gli interessa chi abbia il controllo dello sguardo (gli uomini nello spogliarello, chiunque lo possa padroneggiare nella gestione di una carriera attraverso la propria immagine). Gli interessa demonizzare e farlo con una patina e uno stile che lo certificano come film d’autore. Ma non basta.

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