Wife of a Spy, la recensione | Venezia 77
Uno dei film meno personali e più generici di Kiyoshi Kurosawa, Wife Of A Spy è un rincorrersi di clichè, uno più stanco dell'altro
La storia di spionaggio è vera, quella di un uomo che forse ha delle carte cruciali per la seconda guerra mondiale che nasconde anche a sua moglie e che deve capire come contrabbandare, cosa farci, come nasconderle. Sono carte e un film. E qui arriva il primo dei molti clichè di Wife of a Spy. Il protagonista gira film per hobby, lo vediamo all’inizio, film di doppi giochi con una ladra mascherata. Mentre l’altra bobina è al centro dei suoi piani, quella che contiene qualcosa di spaventoso (impossibile non pensare a The Ring, ma non siamo proprio da quelle parti, lo si può solo desiderare). Come nelle sceneggiature standard, i due filmati saranno ad un certo punto scambiati per contrabbandarlo meglio.
E qui arriva il secondo imperdonabile clichè a cui Kurosawa si abbandona senza resistenza, senza controbattere, senza lottare. Il lungo finale dei due che svela che il vero doppiogioco non è quello della politica, cioè quello del mondo degli uomini, ma quello dell’amore, fatto per tenersi stretto il proprio uomo. Una storia d’amore all’acqua di rose, che ha così poca voglia di essere passionale da essere coronata dai cartelli che chiudono il film.