Wife of a Spy, la recensione | Venezia 77

Uno dei film meno personali e più generici di Kiyoshi Kurosawa, Wife Of A Spy è un rincorrersi di clichè, uno più stanco dell'altro

Critico e giornalista cinematografico


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Eppure solitamente è così facile amare i film di Kiyoshi Kurosawa… Invece Wife of a Spy cerca di rispettare tutte le regole del cinema degli altri. Lui, che aveva fatto film che rispondevano ad un armamentario di leggi e principi che spesso pareva aver inventato da sé (ma cos’è la comparsa delle meduse in Bright? Come riesce a suscitare quello stupore e tenerezza insieme? Chi gliel’ha insegnato?), qui invece si sottomette ai buoni principi del cinema in costume senza metterci un passo personale.

La storia di spionaggio è vera, quella di un uomo che forse ha delle carte cruciali per la seconda guerra mondiale che nasconde anche a sua moglie e che deve capire come contrabbandare, cosa farci, come nasconderle. Sono carte e un film. E qui arriva il primo dei molti clichè di Wife of a Spy. Il protagonista gira film per hobby, lo vediamo all’inizio, film di doppi giochi con una ladra mascherata. Mentre l’altra bobina è al centro dei suoi piani, quella che contiene qualcosa di spaventoso (impossibile non pensare a The Ring, ma non siamo proprio da quelle parti, lo si può solo desiderare). Come nelle sceneggiature standard, i due filmati saranno ad un certo punto scambiati per contrabbandarlo meglio.

E così la spia che non sapeva mentire (lo dichiara più volte che lui non sa mentire, non ci riesce, eppure fa la spia), quella che gira film su una doppia identità in una storia di doppie identità, ha una moglie (quella del titolo) che inizialmente sembra aver intuito qualcosa e chiedersi chi ha accanto. Come in un film girato da tutti quelli che hanno copiato l’Hitchcock di Il sospetto, una parte di Wife of a Spy diventa proprio questo: sospettare il proprio uomo e chiedersi chi si ha accanto. Ma dura anche quello poco, dura fino a che non è chiaro che è uno dei “buoni”.

E qui arriva il secondo imperdonabile clichè a cui Kurosawa si abbandona senza resistenza, senza controbattere, senza lottare. Il lungo finale dei due che svela che il vero doppiogioco non è quello della politica, cioè quello del mondo degli uomini, ma quello dell’amore, fatto per tenersi stretto il proprio uomo. Una storia d’amore all’acqua di rose, che ha così poca voglia di essere passionale da essere coronata dai cartelli che chiudono il film.

Alla fine avremo tutte le informazioni che ci erano state promesse. L’unica interrogativo che rimane è che fine abbia fatto, in tutto questo, Kiyoshi Kurosawa.

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