Who Is America? 1x06, la recensione
La nostra recensione del sesto episodio di Who is America? di Sacha Baron Cohen
Non è infatti con delle persone ragionevoli che Bill Ruddick Jr., il blogger complottista pro-Trump, può dare il meglio. Qui cerca di confutare il riscaldamento globale con un’esperta e scienziata, cerca di convincere un governatore che Hillary Clinton è in realtà un uomo e infine propone ad un medico la teoria secondo la quale l’AIDS non esiste ma è un’invenzione di Big Pharma. Sono tutti momenti in cui gli intervistati fanno da spalla e i personaggi di Sacha Baron Coen portano le battute, in maniera molto più scritta, prevedibile e indirizzata di quando avviene il contrario. Questo non nega che il comico inglese non riesca ad avere dei guizzi geniali (quando per spiegare che l’AIDS è una bufala mostra due campioni di sangue, uno infetto e uno no, sostenendo che quello no sia il suo, preso con lo stesso ago usato per prelevare quello infetto).
Come in un duo comico in cui uno dei due non è capace di andare appresso all’altro, così anche qui il fatto che Erran Morad debba fare da sé tutto il lavoro comico svilisce il segmento.
Per empatizzare con sua moglie ha infatti deciso di sperimentare il parto, con una specie di peso attaccato alla pancia (effettivamente venduto negli Stati Uniti) e con un bambolotto da espellere. Dr. Nira convince la guida ad assisterlo e questa nonostante qualche dubbio sull’utilità e il senso della pratica ha proprio la benevolenza che Sacha Baron Coen intende prendere in giro, unita ad una forma estrema di tolleranza per qualsiasi cosa, da aderire. Sarà così testimone della grottesca scena di un uomo che cerca di farsi uscire un bambolotto dal retto, aiutato da un’infermiera che nel corso dell’operazione si rivelerà la sua donna di servizio minacciata di essere denunciata all’immigrazione.
Infine l’ex carcerato stavolta si dà alla cucina in un momento di puro surrealismo televisivo. Chef di un ristorante stellato, invita un critico culinario e gli sottopone piatti imparati in carcere, cucinati in modi estremi come farebbe in galera, che includono carne fatta ammorbidire in un preservativo infilato nello stomaco e poi evacuato. Il critico mangia tutto davanti alle telecamere senza avere mai la forza di criticare la storia di un carcerato-chef che porta nell’arte culinaria l’esperienza estrema della galera. È forse una delle migliori dimostrazioni mai viste della sudditanza che esiste nei confronti dell'arte povera, proveniente da contesti difficili e quindi di quanto fare l’artista (o lo chef) sia una questione da ricchi che guardano con paternalismo i disagiati e sono pronti a subire di tutto per non essere tacciati di classismo.