Whitney - Una voce diventata leggenda, la recensione
Finché Whitney - Una voce diventata leggenda si limita alle note più semplici funziona, quando prova la via del dramma diventa stonato
Basta vedere una decina di recenti biopic sui musicisti per sentirsi dentro una sorta di MCU. Music Cinematic Universe. Accade con Whitney - Una voce diventata leggenda, dove viene citata la morte per droga di Judy Garland. Si pensa al film Judy, come se entrambi, pur non avendo nulla in comune produttivamente parlando, concorressero a raccontare un’unica grande storia. Quella della scoperta di un talento come un superpotere, l’incredibile successo che ne consegue, l’alienazione, e la caduta dolorosa. L’aveva già detto Elvis, in maniera molto più convincente: queste persone sembrano stelle, sono invece fragili e soli.
Come biopic Whitney nasconde sotto il tappeto le sfumature più dolorose. Naomi Ackie, che prova in ogni modo a dare spessore, lavora purtroppo con una sceneggiatura tutta calibrata sulle funzioni che deve assolvere più che sulle emozioni. La stragrande maggioranza dei dialoghi serve a spiegare qualcosa, a dare un’informazione di contesto senza che lo si senta veramente. Lo fa con gente che guarda la tv e declama alla famiglia “mi hanno detto che Whitney Houston è la numero uno secondo Billboard!”.
I tre atti diventano tre generi diversi. Il primo è un biopic in cui una ragazza deve crescere, abbandonare l’adolescenza. Il secondo è un tentativo di indagine sociale, con l’omosessualità nascosta, il razzismo al contrario (la accusano di essere troppo vicina al mondo bianco per una nera) e il potere distruttivo dei media. Infine c’è un film sportivo, un rapporto d’amore con il pubblico che per essere compiuto deve richiedere un sacrificio da atleta. Allenamento, fatica, e talento per toccare note impossibili.
Nulla di questo si amalgama bene, in un film che funziona benissimo come passatempo e meno come espansione delle emozioni date dalla cantante. Si mantiene al sicuro per gran parte della durata, facendo vedere i successi e limitandosi a spiegare a voce la caduta. Si dice che è dipendente dalla droga. Non la vediamo quasi mai assumere sostanze. Si dice che non è più quella di un tempo. Eppure non crolla in scena. La cinepresa arriva sempre un po’ prima o un po’ dopo.
Facile capire perché: finché Whitney gioca con il ritmo che è più congeniale al film, la struttura si tiene insieme, non appena tenta un ingresso nel dramma, ben più difficile da girare e da recitare, mostra tutti i suoi limiti. Come notę troppo alte, che non riesce a prendere, e che suonano per tanto stonate.
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