When They See Us: la recensione

La recensione di When They See Us, la miniserie di Ava DuVernay che racconta il caso di ingiustizia nei confronti dei Central Park Five

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L'indignazione è il primo e il più puro sentimento evocato dalla miniserie When They See Us, realizzata per Netflix da Ava DuVernay. La storia narra dell'ingiusta condanna di cui furono vittima i cosiddetti Central Park Five, accusati sul finire degli anni '80 per uno stupro mai commesso. La regista afroamericana (Selma) torna quindi dopo il fantasy ai temi che le sono più vicini: diritti civili, pregiudizio, ingiustizia sociale. Lo fa in una miniserie dura e netta, che non elabora conflitti e non innalza la propria narrazione oltre il semplice, per quanto sconvolgente, racconto della storia.

Nel 1989 una jogger è vittima di uno stupro a Central Park. Quella stessa notte cinque minori afroamericani sono arrestati e sottoposti a interrogatori, anche in violazione dei loro diritti garantiti. Dopo essersi proclamati più volte innocenti – come in effetti sono – ognuno di loro crolla accettando di confessare il crimine mai commesso. Inizia il calvario sotto la pressione dell'opinione pubblica, e quindi il processo, il carcere, il duro ritorno alla vita normale. Ai volti dei protagonisti si affiancano quelli di attori più noti in ruoli marginali: Vera Farmiga, Felicity Huffman, Joshua Jackson, Michael K. Williams, John Leguizamo.

Dopo l'esperimento fantasy non riuscito con Nelle pieghe del tempo, Ava DuVernay torna al terreno che le è più congeniale: quello della denuncia sociale che si fonde con l'elaborazione storica. Ma è pur sempre, come nel caso di Selma, un racconto totale che non richiede particolare elaborazione da parte dello spettatore. Il conflitto nella storia non esiste se non come presa di coscienza dell'ingiustizia commessa dallo Stato nei confronti di cinque minori e delle loro famiglie. Che, è evidente, suscita rabbia, indignazione, frustrazione, ma esiste solo come reazione dovuta ad un caso di cronaca che rimane tale, e non diventa racconto di altro.

L'ingiustizia subita dai protagonisti in When They See Us è talmente enorme e smaccata da divorare la narrazione della storia, da smussare le asperità nella caratterizzazione dei protagonisti, vittime prima che individui. Tra i personaggi secondari fanno parzialmente eccezione i due interpretati da Vera Farmiga e Michael K. Williams, più inafferrabili e complessi degli altri, e quindi più interessanti. Non è un caso che l'episodio nettamente migliore sia il secondo, quello che racconta le fasi processuali, forse l'unico in cui la scrittura si esalta nella diversa gestione della linea di difesa e di accusa, e quindi nell'elaborazione del racconto. In ambito seriale, era ad esempio qualcosa che invece riusciva benissimo a The People vs. O.J. Simpson, che fondeva bene cronaca reale, scrittura appassionante e libera, gestione dei temi (al cinema invece un esempio positivo potrebbe essere Nel nome del padre).

La scrittura della miniserie non ammette falle nella propria struttura: il messaggio dovrà essere chiaro. In questo senso When They See Us non può essere svincolato dalla visione di XIII Emendamento, l'ottimo documentario di Ava DuVernay del 2016 sempre distribuito da Netflix, e candidato all'Oscar (e che parlava tra le altre cose anche dei Central Park Five). Di quell'analisi più rigida e fredda che ricostruiva le cause del sovraffollamento nelle carceri americane rappresenta il compendio emotivo, l'esempio eclatante, la storia che può arrivare alla coscienza di ognuno. In questo senso gli si deve perdonare qualche lungaggine – soprattutto nel terzo episodio – e qualche eccessiva strizzatina d'occhio (una frecciata al Trump dell'epoca, liquidato con un "i suoi quindici minuti di notorietà stanno finendo").

Preso atto di questa lettura, la miniserie trova un suo senso e ci si può abbandonare più liberamente al suo cuore emotivo.

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