When Evil Lurks, la recensione
C'è il carattere ma mancano le basi di scrittura in questo film argentino di possessioni, immeritatamente accolto fra gli horror dell'anno.
La recensione di When Evil Lurks, il film diretto da Demián Rugna al cinema dal 17 luglio.
Quando diciamo occasione sprecata siamo sinceri, perché la prima mezz’ora di When Evil Lurks è davvero un bel pezzo di cinema. Rispetto ai suoi parenti hollywoodiani questo film argentino cerca una propria strada all’horror su possessioni demoniache. E per molti versi la trova: c’è una cattiveria adorabile nelle scene gore (specie una che coinvolge una bambina e un cane) che fa capire perfettamente perché la critica di settore lo abbia preso in simpatia. Ed è efficace – se non proprio originalissima – la mescolanza tra film demoniaco e meccanismi di tensione che rimandano a La Cosa di Carpenter, con un nemico invisibile che potrebbe nascondersi dietro chiunque delle persone in scena.
C’è qualcosa di quasi schizofrenico nel modo in cui questa promessa – che tendenzialmente indica coraggio, sicurezza nei propri mezzi da parte del narratore – viene rimangiata e contraddetta dal film. Più tempo passa più è evidente che Demián Rugna & Co, nonostante la spavalderia di un’introduzione così poco spiegata, hanno una paura matta che il pubblico non riesca a orientarsi senza essere imboccato. Forse perché, sotto sotto, non conoscono altro modo di raccontare. In contrasto con l’indirettezza della prima, la seconda metà di When Evil Lurks fa sentire insultata l’intelligenza dello spettatore, che ogni cinque minuti deve sorbirsi spiegazioni particolareggiate su regole narrative che i realizzatori non hanno tempo o non sono in grado di far emergere organicamente dal testo.
Questa paura di non riuscire a comunicare col pubblico emerge anche da un altro aspetto del film, la gestione delle parti dialogiche e la direzione degli attori: tutto è caricato a mille, gonfio di esclamazioni e dialoghi urlati, con interpreti che non sembrano conoscere un registro non isterico. Anche qui l’impressione è che si pensi di dover bilanciare con un sovraccarico di emotività l’assenza di una narrazione capace di imporsi con sicurezza; che se si fa vedere un personaggio “emozionato” lo spettatore si emozionerà di conseguenza, per condizionamento pavloviano, anche se non gliene si dà motivo. Invece lo si fa uscire ancora di più dal film.