West Side Story, la recensione

Un remake che non può trovare lo stupore dell'originale e cerca invece di essere più attuale, più moderno, più agganciato alla realtà

Critico e giornalista cinematografico


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West Side Story, la recensione

Il remake moderno di un musical fondato tutto sull’uso espressivo del colore è immaginato da Steven Spielberg e Janusz Kaminski senza colore, cioè con una fotografia per larghe parti desaturata.

È la prima decisione, prima di tutto, prima ancora del casting. Questo West Side Story non è fondato sul colore, racconta una città che arretra invece che espandersi e si apre sulle macerie dei palazzi che vengono demoliti per riqualificare il quartiere. I poveri stanno per essere cacciati dai ricchi. Certo poi lungo le due ore e mezza del film il colore giocherà il suo ruolo, ci saranno scene più vivaci, ci saranno numeri fondati sulla ricerca di un’illuminazione vecchio stampo (come per Tonight in cui fa capolino un tramonto in stile Selznick come quelli già visti in War Horse), ma il film obbedisce all’estetica che Spielberg e Kaminski inseguono da Salvate il soldato Ryan, in cui il colore non è dato per scontato ma utilizzato quando serve.

In questa maniera tutto il film si distacca dal modello Romeo e Giulietta e insegue invece una storia che non è molto giovanile nei temi ma anzi è molto adulta e politica. Una storia che mette a fianco l’integrazione razziale con la speculazione edilizia, in maniere più delicate e meno arrabbiate o approfondite di Candyman, ma comunque con quello spirito.

Soprattutto, nonostante la presenza di tutte le canzoni dell’originale, West Side Story di Spielberg è molto meno un musical nell’anima perché della musica sembra importargli poco, la intende come un veicolo e non come il punto finale di tutto. Se l’originale aveva una storia classica come pretesto per girare uno spettacolo musicale incredibile, questo usa lo spettacolo musicale come pretesto per un racconto politico.

Per fare questo dismette completamente l’astrazione metaforica di quel film e agli ambienti vuoti di Wise oppone invece una città viva e piena di persone, inserendo i personaggi in un realismo che i musical hanno conosciuto solo recentemente. Più sporco, meno teatrale, meno stilizzato e più atletico nei numeri e nella recitazione, West Side Story desidera tantissimo essere moderno ma non è mai avanguardia, e dichiara che il conflitto dei suoi personaggi è una lotta tra poveri che si svolge all’ombra della loro marginalizzazione da parte delle élite (che non vediamo mai ma incombono dai grandi manifesti elettorali). Non è più la festa per gli occhi e il sollazzo delle proporzioni, non è più lo stupore delle capacità produttive spettacolari dello studio system ma un film in linea con altre produzioni del nostro tempo, che non può avere quel fattore di stupore ma al massimo il fascino delle sue citazioni alla Hollywood classica.

L’operazione più sofisticata di tutte in questo film che è decisamente più di testa che di sentimenti, più ragionato che sentito, è come Spielberg trasformi un film fatto di gang di uomini in lotta, in uno di donne e come lo faccia solo spostando di poco i pesi. È un movimento coerente con il tentativo di sottrarre il musical al palcoscenico e portarlo in strada, dove stanno le persone, dove si vive e si sogna davvero. Anche i passi di danza raramente hanno le iperboli di quelli classici e più la schietta semplicità del ballo moderno. Non può toccare i numeri musicali e la loro posizione, ma aggiunge scene, dà un’altra centralità ad Anita (eccezionale Ariana DeBose, l’unica di tutto un cast abbastanza moscio che si fa notare, capace di esprimere la grinta che racconta il suo personaggio e il suo numero musicale) e con garbo scivola dalle donne come motore per le lotte tra uomini alle donne come motore del proprio destino in un paese che sembra non avere spazi per i sogni americani.

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