Wendell & Wild, la recensione

Pieno di un'immaginazione pazzesca, colmo di idee che basterebbero per altri due film Wendell & Wild è il film più libero di Henry Selick

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

La recensione di Wendell & Wild, il film disponibile su Netflix dal 28 ottobre

In un film di Henry Selick bisogna sempre fare attenzione agli sceneggiatori. Tim Burton per l’ideazione di Nightmare Before Christmas, Neil Gaiman per la storia di Coraline e qui Jordan Peele (che con l’ex sodale Keegan-Michael Key doppia la coppia di demoni del titolo). Non è un caso che stavolta in un mondo ritratto sia tutto afroamericano (anche i demoni lo sono) quello in cui una bambina con trauma è diventata suo malgrado una porta di comunicazione con un altrove. Perché c’è sempre un altrove fantastico per Selick, un posto diverso e inquietante a cui raffrontare il nostro per scoprire qualcosa di sé e superare i traumi.

Se probabilmente Selick non supererà mai la perfezione di Coraline e di quel tunnel-cordone ombelicale che consentiva alla protagonista di entrare in contatto con “l’altra madre” e scoprire qualcosa in più su di sé mentre il film stesso scopriva la terza dimensione allungandosi e restringendosi dentro al tunnel, Wendell & Wild si attesta certamente come la sua opera più libera e creativa. C’è tutta la concentrazione di Peele sulla politica e la sua capacità di raccontare idee e ideali non per parole ma per intrecci, unita a  quella capacità che abbiamo imparato a riconoscere in Selick di credere nel potere del cinema al punto da lasciare che le parti più importanti della storia stiano nelle immagini.

Così stavolta la bambina demoniaca vive un’avventura interna ad un orfanotrofio gestito da un prete morto e resuscitato (con un trucco da maschera giapponese) con tanto di suore-minion, al soldo di uno spietato imprenditore calcato sulle fattezze di Trump. È lei ad evocare tramite un orsacchiotto che parla in latino i demoni del titolo, loro permetteranno di riportare in vita i suoi genitori ma in realtà sono a caccia di soldi per un business senza senso (una fiera della gioia, fatta da demoni!), che tuttavia impallidisce davanti alla loro occupazione precedente: impiantare capelli ad un demone gigante nelle cui narici hanno la loro abitazione. La crema con cui impiantano i capelli è anche qualcosa che assumono come una droga.

È chiaro che Wendell & Wild cerca come può di non rispettare alcuna regola, di spiazzare e coinvolgere nella poetica che Selick porta avanti dal primo film, cioè mescolare il mondo dei morti e dei vivi, del concreto e del fantastico, per scoprire il bene e male in ognuno di essi (nei suoi mondi altri c’è sempre la follia mentre è nei nostri che regna il grigiore) e dare forma ad una realtà ibrida. Questa nello specifico è una storia che associa con forza capitalismo e morte, bramosia di tutto a desiderio di possesso degli altri (la stessa bambina rivuole i genitori morti e desidera tenerli artificialmente in vita) per poi lasciare che la follia demenziale dell’altro mondo distrugga tutto, vanificando ogni sforzo sia dei buoni che dei cattivi.

È un viaggio molto divertente, finalmente pieno di soluzioni che riempiono gli occhi e di grande audacia di scrittura, nel quale nessuno dimentica mai che il punto di tutto (specialmente nella stop motion) sono le scelte visive. Un mondo che sembra plasmato per avere la consistenza della carta infatti si specchierà alla fine in un diorama che illustra il sogno di alcuni personaggi. È la carta, cioè la maniera in cui prendiamo materiali grezzi e gli diamo una forma infondendoci il nostro pensiero (definizione che va bene anche per la stop motion) ad essere la vera materia di cui sono fatti i sogni.

Continua a leggere su BadTaste