We own this city, la recensione

We own this city è un cupo affresco che mette a nudo le crepe di un sistema fallato e corrotto

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La nostra recensione della serie limitata We own this city, disponibile su Sky Atlantic a partire dal 28 giugno

"Come diavolo fa un agente a collezionare oltre 50 denunce civili di brutalità e abusi in una carriera e rimanere operativo sul campo?" La domanda di Nicole Steele (Wunmi Mosaku) potrebbe essere eletta a sintesi di We own this city, serie HBO che segue la spirale di corruzione della Gun Trace Task Force di Baltimora. E non potevano esserci penne migliori di George Pelecanos e David Simon per trasporre l'opera del giornalista Justin Fenton; avendo all'attivo cult come The Wire e The Deuce, la coppia di sceneggiatori infonde del proprio consueto realismo questa nuova parabola di depravazione.

Sin dalle prime inquadrature, We own this city ci tiene a sottolineare lo stridente contrasto tra la specchiata moralità di facciata della polizia e le azioni abiette di cui i suoi membri si macchiano. Lo fa attraverso il discorso coinvolgente e galvanizzante di Wayne Jenkins (Jon Bernthal), asceso negli anni agli alti ranghi della Gun Trace Task Force. Un'ascesa lenta e inesorabile, che seguiamo attraverso i numerosi flashback di cui è costellata la stagione; ogni gradino che Jenkins sale è costruito su una base di sopruso e delinquenza, paradossale antitesi al ruolo di tutore della legalità che l'uomo ricopre.

La legge della corrente

Il fatalismo che traspare da ogni cellula della miniserie potrebbe far vacillare gli spettatori più avvezzi al tradizionale racconto di redenzione; sebbene giustizia venga fatta attraverso un buon numero di arresti tra le fila della polizia, permane un senso di buio degrado e di ciclicità della corruzione, in cui lo sfruttamento della divisa per fini illeciti non avrà realmente mai fine. Ci sono, è vero, figure che si stagliano al di sopra della coltre di abusi perpetrata dalla GTTF; abbiamo la già citata Steele, avvocato di diritto civile del dipartimento di giustizia che cerca di far luce sui loschi comportamenti della task force.

Parallelamente, seguiamo anche Sean Suiter (Jamie Hector), ex collega di Jenkins divenuto detective della Omicidi. Seppur trascinato da Wayne sulla cattiva strada dell'appropriazione indebita, Sean sembra ora un uomo del tutto diverso, che ripensa con disgusto agli anni trascorsi al fianco del corrotto agente. Ma il passato torna a bussare alla sua porta, e Sean deve decidere come fronteggiare lo spettro della sua antica, riluttante immoralità. Anche lui, come le vittime degli arresti di Jenkins e del violento collega Hersl (Josh Charles), subisce in un certo senso la legge del più forte; sospinto dalla corrente di una corruzione dilagante, si abbandona - seppur brevemente - ai flutti della delinquenza, seppur distaccandosene con ratta consapevolezza.

Un ritratto desolante

Emblematica, in tal senso, la reiterazione di una formula detta dagli agenti "rodati" alle nuove leve: "Dimentica tutto quello che ti hanno detto in Accademia." Questa cancellazione sistematica dei cardini dell'etica professionale trova perfetta eco nel dilagare della delinquenza tra le fila dei poliziotti; non c'è scrupolo di coscienza che tenga, fintantoché si porta sul tavolo un risultato. Poco importa che un po' di droga scompaia convenientemente per essere rivenduta dagli stessi agenti; e poco importa che intere famiglie finiscano sul lastrico (o peggio) per i soldi "confiscati" e subito spartiti tra i membri della task force.

Sarebbe però ingiusto ridurre We own this city a mero racconto delle gesta di un isolato gruppo di agenti corrotti; come suggerito nel finale della serie, il ritratto che emerge è ben più ampio e squallido. C'è tutto un sistema malato dietro l'esplosione di delinquenza nella GTTF, un sistema che fa riferimento alla fallacità della guerra alla droga. Si tratta, purtroppo per Baltimora, di una guerra persa da tempo, ma che viene alimentata a uso e consumo della politica, snaturando alla base il lavoro di ogni agente di polizia. Su questo tetro messaggio si chiude la miniserie, senza lasciare allo spettatore speranza alcuna su una possibile evoluzione positiva della situazione criminale. Nei cartelli finali, non leggiamo solo dei dati; impressi in quei numeri c'è il fallimento di un intero paese, che ha fatto del sopruso verso i deboli il proprio vessillo celato.

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