We Are Who We Are (prima stagione): la recensione

La serie Sky-HBO di Luca Guadagnino è un continuo cambiare, variare, sperimentare e trovare modi fuori dagli schermi per raccontare sessualità fuori dagli schemi

Critico e giornalista cinematografico


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We Are Who We Are (prima stagione): la recensione

C’è di nuovo un ambiente a condizionare i personaggi di una storia di Luca Guadagnino, qui sceneggiatore con Francesca Maniera, Sean Conway e Paolo Giordano. In Io sono l’amore era una casa (e che casa! Villa Necchi), in Suspiria il cambio d’ambientazione nella Berlino degli anni ‘70 era tutto e in Chiamami col tuo nome quella campagna sembrava un agente cruciale nella conquista dei sensi.

We Are Who We Are (Right Here Right Now) fa di nuovo una scelta fuori dai canoni e ambienta tutto in una base militare americana nel Nord Est italiano. E di episodio in episodio questa base è viva, brulica di militari, c’è sempre qualcuno che fa qualcosa nello sfondo, è piena di ordine ovviamente ma anche di vita e di opportunità. È insomma di nuovo l’ambiente a creare momenti e suscitare una presa di coscienza di sensazioni che stanno lì e premono per uscire. Quasi mai infatti sono i personaggi a scatenare e quel mondo che sembra stimolarli, agirli.

Non è questo l’unico collegamento con il resto della filmografia di Luca Guadagnino. Questa serie che andrà dal 9 Ottobre su Sky e Now Tv (prodotta da Wildside e The Apartment) porta con sé alcune idee e alcuni spunti che spesso hanno alimentato le sue storie, come ad esempio una storia sentimentale tra persone di età (ed esperienze) diverse. Sono tutti strumenti che la serie usa per arrivare al suo obiettivo. Come molte anche questa serie ha dentro di sé un cuore melò, cioè una storia di affetti complicati e contrastati che i personaggi che cercano lo stesso di affermare. Solo che come nei melò classici qui (di nuovo) è l’ambiente a fare la differenza, le passioni e le pulsioni scoppiano infatti nell’ultimo posto in cui sembra siano autorizzate a fiorire (lo sottolinea nelle prime puntate la forte presenza di comizi di Donald Trump in televisione). Sono passioni eterosessuali ma soprattutto omosessuali che confondono personaggi in cerca della propria sessualità.

[caption id="attachment_363236" align="aligncenter" width="1280"]We are who we are I character poster della serie in cui il mondo militare senza volto "tiene i personaggi"[/caption]

Fraser e Caitilin, le parti più centrali nel cast di ragazzi della serie, sono due facce della stessa medaglia. Fraser è il classico protagonista appena arrivato, non conosce nulla della base militare, come gli spettatori, e inizia a cercare di inserirsi con grande fatica (e poca simpatia) nel liceo della base. È arrivato lì seguendo le sue due madri, una delle quali è il nuovo comandante. Caitilin invece è figlia di uno degli ufficiali, un uomo molto tradizionale, e ha due fratelli maggiori con un rapporto tra loro incredibile. Fraser è vergine e sembra avere interessi omosessuali, Caitilin è molto più decisa su tutto tranne che sul suo corpo, è poco a suo agio come ragazza e quando può fugge e si finge un ragazzo (riscontrando un certo successo nei dintorni veneti). I due si annusano per un po’, girano assieme alle stesse persone e in una maniera che le parole faticano ad esprimere si influenzano.

Fin qui arriva la trama (dei primi episodi) ma la vera goduria di questa serie che ha tempi, scansione, sorprese e svolgimenti che non somigliano per nulla all’ottovolante di cliffhanger e rivelazioni a cui ambiscono le serie più note, sta tutta nelle variazioni, nel non avere uno schema fisso ma scegliere ogni volta il modo migliore per raccontare un aspetto o un ambito della personalità e della ricerca dei protagonisti.
In particolare c’è un episodio, il quarto, in cui We Are Who We Are sembra lavorare di ormoni e desiderio come un falegname che intaglia un ritratto in un albero. Precisione e forza. Il gruppo che conosciamo festeggia in modi sfrenati con un fondo di paura e disperazione (per ragioni che capiamo bene alla fine della puntata) un matrimonio rapido. Entrano in una villa disabitata e gradualmente scivoliamo in una festa sempre più alcolica, sempre più incosciente, che libera le pulsioni sessuali.

We are who we are

In quel momento è esposto più chiaramente che altrove il segreto e la cura di una serie che fa un lavoro di montaggio pazzesco (Marco Costa è il montatore). Non è solo lo staging, cioè la disposizione e gestione di questo ensemble di attori in un grande ambiente, ma anche la cura con la quale in una scena potente la serie riesce a montare azioni e reazioni per tenere al centro della nostra attenzione i due protagonisti, anche se sono i personaggi che si danno meno da fare. Quello di seguire quei due nel mare di altri è solo un suggerimento di montaggio in una sostanziale libertà di guardare e vedere cosa stiano facendo tutti. È un senso di libertà giovanile reso con strumenti del racconto audiovisivo che raramente si vede. Così sottile. Così poco enfatico eppure potente. Altrove per una scena simile avremmo visto la mano pesante della regia, invece qui no. Questa fusione di locale e internazionale, di veneto e americano, sembra naturale, invisibile, comune.

È la sineddoche perfetta di una serie che poi diventa altro di continuo, che ha ben poco interesse nella continuità dei toni, ma preferisce di gran lunga esplorare, variare, fare quel che vuole (chi è quel ragazzo che viene introdotto nell’ultima puntata?). Del resto non è questo quel che dicono tutti i creatori di serie tv anche quando in realtà non sperimentano un bel niente?

E se il racconto degli struggimenti amorosi sembra comunque il campo in cui si muove meglio, qui si aggiunge anche un ritratto dell’adolescenza totalmente inconsapevole. We Are Who We Are a differenza di moltissimi racconti adolescenziali in cui abbiamo la sensazione che i ragazzi sappiano di essere ragazzi, si guardino con una specie di senno di poi (che in realtà è lo sguardo degli autori, che ragazzi non sono di certo), riesce a catturare l’essenza dell’essere giovani e non saperlo, pensare di non essere in un periodo di transizione, non sapere che tutto cambierà ma temere che tutto rimanga invece così com’è.

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