La recensione di We Are the World: la notte che ha cambiato il pop, il nuovo film diretto da Bao Nguyen, in streaming su Netflix dal 29 gennaio.
Si può fare un documentario di un’ora e mezza sul nulla? Chiedetelo ai realizzatori di
We Are the World: la notte che ha cambiato il pop. Il cui argomento non sarebbe affatto privo di interesse: si parla, ovviamente, della notte in cui qualche decina delle più famose popstar americane si riunirono nella casa-studio di
Lionel Richie per registrare la hit planetaria
We Are the World. Fra i singoli più venduti della storia, il brano raccolse in totale oltre 100 milioni di dollari, poi devoluti al popolo etiope decimato dalla carestia. Oggi rimane emblematico (e quindi narrativamente interessante) per tanti aspetti della cultura pop e dello star system anni ‘80. Le mega-manifestazioni di beneficienza – era la risposta americana al progetto
Band Aid organizzato da
Bob Geldof con le superstar della musica inglese; la loro retorica spudorata e autocelebrativa, non dissimile da quella di altri eventi tipicamente ottantini come la
Rock N’ Roll Hall of Fame; e la natura ancora razzialmente segregata dell’industria musicale americana.
Di fronte a tanto materiale We Are the World adotta l’approccio meno interessante: quello di limitarsi a celebrare, con spirito nostalgico e fondamentalmente aproblematico, un momento “iconico” del pop. Per Netflix si tratta dell’ennesimo tributo-amarcord agli anni ‘80, dopo Stranger Things, la docuserie The Last Dance (ambientata nei ‘90, ma che aveva in Michael Jordan un protagonista simbolo di entrambi i decenni) o il recentissimo documentario sugli Wham! di George Michael. Malgrado il maggior respiro epico del primo e interesse musicale del secondo, nessuno di questi film evento si sottrae a una certa impressione di inconsistenza tematica. Non c’è molto a parte la celebrazione dell’icona, che da un lato funge da richiamo per la piattaforma mentre dall’altro costituisce un utile spot di rilancio per la star di turno o i suoi eredi. Una formula, questa, che stride particolarmente quando applicata a un evento di per sé caratterizzato da un surplus di retorica come We Are the World, ancora oggi affettuosamente preso in giro da parodie e meme che ne rievocano i momenti più kitsch.
Che
We Are the World punti dritto alla pancia, non volendo/potendo dire molto di interessante sul tema, si capisce anche da come si affanna a drammatizzare l’esperienza di quella
session, raccontata come una missione sovrumana, una corsa contro il tempo. D’accordo che bisognava portare a casa le take definitive in una notte. D’accordo che gli ego erano smisurati. Ma davvero dovremmo essere in tensione per la registrazione di un successo annunciato, con in console un genio come
Quincy Jones e registrato da alcuni dei cantanti più talentuosi di sempre? Ancora una volta, l’idea è quella di celebrare una missione eroica, senza sfumature o zone d’ombra. Se sembrasse troppo facile si perderebbe il senso dell’impresa. Eppure è proprio questo che emerge dalle immagini: grandi artisti concentrati sul proprio lavoro, un po’ accaldati, contenti di trovarsi in reciproca compagnia. Era necessario raccontarlo come un episodio di
Mission: impossible?