Warrior (prima stagione): la recensione

Figlio di Banshee e di un soggetto di Bruce Lee, Warrior è un ottimo esempio di action drama: sintesi di scrittura per una serie in cui i personaggi trovano un senso attraverso lo scontro fisico

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Più che degli scritti di Bruce Lee – un soggetto di poche pagine proposto negli anni '70 – Warrior sembra più figlio del trattamento di Jonathan Tropper, già showrunner di Banshee. In onda negli Stati Uniti su Cinemax, questo action travestito da period drama ne riprende l'alto tasso di adrenalina, la passione quasi carnale per lotta, il gusto esagerato per la violenza. Warrior, serie tv trasmessa da noi su Sky Atlantic, rimescola tutto con una sintesi di scrittura e intreccio apprezzabile, affilata come le lame che talvolta vedremo apparire come armi alternative alle pistole fumanti e ai pugni insanguinati.

È il 1878, e ci troviamo in una San Francisco ai margini del mondo. Se è vero che gli estremi si toccano, qui la costa dell'America si specchia nell'estremo oriente, accogliendo ogni giorno nuovi immigrati cinesi che si vanno a sommare alle migliaia già presenti. Accoglie per modo di dire, dato che il clima di esasperazione e diffidenza è immediatamente tangibile. I cinesi si inseriscono nel tessuto sociale scavando proprie nicchie di potere, i tong, spesso in contrasto tra di loro. In questo clima di tregua apparente arriva un giovane, di nome Ah Sahm, che ha un obiettivo personale ben preciso, ma che con le sue abilità di combattimento attira le attenzioni di molti.

Lo stile di Warrior sarà subito familiare ai fan di Banshee, la precedente serie creata da Jonathan Tropper. Questo autore televisivo intende la sintesi del potere solo come violenza, inevitabile e di tutti contro tutti. Così, come la cittadina americana che era al centro del suo precedente progetto, anche questa piccola porzione di San Francisco viene filtrata attraverso una lente che deforma i corpi e amplia gli spazi di lotta. Come in Peaky Blinders ci sono le strade polverose e grigie percorse dalle bande; come in Black Sails il bordello locale diventa il crocevia di discussioni e incontri, il luogo perfetto dove carpire dei segreti; come in Banshee i corpi di uomini e donne sono contenitori che trovano un senso solo nel sesso e nella violenza.

Creata anche da Justin Lin, nome fortissimo dietro la saga di Fast & Furious, Warrior centra con precisione invidiabile il proprio obiettivo. Padrona del proprio stile, rielabora il soggetto dello straniero in terra straniera, fortissimo e diverso da tutti gli altri, anche dalla propria gente. Andrew Koji interpreta con il giusto distacco e qualche lieve punta di umorismo il suo Ah Sahm, e ogni sguardo ci ricorda perché è proprio lui l'elemento più interessante della vicenda. Nato in Cina, quindi più cinese dei suoi compagni che non sono mai stati in quel paese, ma capace di parlare inglese, quindi ancor meno chiuso in una nicchia linguistica.

Silenzioso e compassato, è un personaggio che vale la pena seguire, tanto che la scrittura si permetterà di spendere molto tempo su di lui. È il caso di un ispirato episodio centrale della stagione, che abbandona tutto il resto dell'intreccio per proiettare lui e un altro personaggio in uno scenario western, in una sorta di bottle episode atipico e divertentissimo. Dietro tutta la presunta serietà di fondo – il tema dell'immigrazione si presta a una lettura contemporanea – e l'impostazione storica da Gangs of New York, Warrior compensa sempre la propria storia con leggerezza e consapevolezza. È un action drama prima di tutto, e un ottimo esempio di questo genere.

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