War Horse, la recensione

Con la più improbabile delle storie e un indefesso spirito favolistico Steven Spielberg gira uno dei suoi film più grandi degli ultimi 20 anni...

Critico e giornalista cinematografico


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Non ci sarà mai più un regista come Steven Spielberg, come non ce ne sarà mai più uno come John Ford.
Non avremo più un regista così tecnico, così competente, così mostruosamente tenace eppure capace di impressionanti slanci di naivitè. Capace di commuoversi per la più banale delle frasi e renderla coinvolgente anche per il pubblico più smaliziato. Non avremo mai più un regista dalla carriera costellata di trionfi capace di rialzarsi (e alla grande!) dopo il più ovvio e comprensibile dei declini.

Con War Horse, Spielberg conferma l'impressione avuta guardando Le Avventure di Tintin: il Segreto dell'Unicorno: è tornato.

Se Tintinmostrava che la verve e la forza cinetica, muscolare e pianificatoria di Indiana Jones non erano morte con la fine della saga (l'esatto contrario di quanto si era visto nel quarto film, realizzato solo pochi anni fa), War Horse mostra che il sentimentalismo più semplice, spiccio e diretto di uno dei registi più popolari tra i veri maestri è ben lungi da considerarsi qualcosa che appartiene al passato. Spielberg sperimenta, innova e inventa in ogni inquadratura. Applica a un film dal vero le transizioni viste in Tintine ogni volta che un uomo muore crea una soluzione visiva nuova e diversa per non mostrarne direttamente il decesso. Il risultato sono momenti altissimi.

Eppure i cavalli muoiono in scena, perchè War Horse, in sostanza, usa un cavallo per raccontare di uomini. Usa la storia di un animale che passa di proprietario in proprietario, attraverso vicissitudini legate allo scoppio della prima Guerra Mondiale per raccontare l'umanità che si snoda accanto all'inumanità della guerra. Lui, il cavallo, non è un personaggio, benchè sia il centro degli eventi, lo dimostra il fatto che non ha nessuna personalità definita al di là della tenacia che lo caratterizza. Assume la personalità dei suoi diversi padroni, di volta in volta riflettendone il carattere e adattandosi a essi.

Sono infatti i padroni le figure che interessano a Spielberg, i loro volti stupefatti di meraviglia inquadrati con carrelli a stringere, in un miscuglio di nazionalità e personalità diverse (già sento chi criticherà il fatto che parlano tutti in inglese/italiano, ma è gente che non ricorda i film degli anni '50), tutti svelati con l'arma del buonismo. E che arma!

Con una favola che non vuole mai essere seria, nemmeno nelle più minuziose ricostruzioni degli scontri di trincea, Spielberg gira uno dei migliori film di John Ford. Pensando a Un uomo tranquillo, ne ricostruisce minuziosamente stile, inquadrature e immaginazione nella prima parte e ne segue il retaggio spirituale nella seconda (chiudendo con un misto di Via col Vento e Il mago di Oz talmente palese da essere straziante). Eppure i suoi uomini non sono mai fordiani, solo il paesaggio in cui si stagliano lo è. I suoi uomini sono dal primo all'ultimo spielberghiani, dei sognatori, dei delusi, dei romantici e dei sensibili. Il buonismo a piccole dosi è quasi sempre ridicolo, applicato a un film intero commuove.

 
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